«Le note e il mare, vertice del piacere»

«Mio padre era pianista. Ho studiato composizione, poi mia madre decise: fai un altro mestiere»

Cesare G. Romana

da Milano

«Tra i grandi ricchi, è l’unico che i soldi li investa nel piacere della vita», disse di lui un finanziere, suo collega. Vero: per Francesco Micheli, imprenditore, mecenate, presidente del Conservatorio di Milano, uomo di business e inventore di eventi, il piacere di vivere ha due capisaldi, la musica e l’arte. Lo raccontano, nel suo studio, i due quadri appesi: un Ecce homo immerso in una luce tranciante, e di fronte una natura morta, chitarra, corno barocco, tamburello e un leggio, sul leggio uno spartito e sul tutto un’affettuosa penombra.
«Del resto la finanza e la musica vanno d’accordo», assicura lui. «Hanno entrambe a che fare con la matematica», suggerisco. «Infatti: non è forse, Pollini, un grande matematico?», conviene. E aggiunge: «È dimostrato, quando l’imprenditoria collabora con la cultura, la produttività cresce». Lui, d’altronde, ne è la prova vivente: un curriculum che spazia dalla Finarte al Web, dall’E-Biscom alle intraprese culturali. Poi, quando sparisce dal suo ufficio a un passo dalla Scala, chi lo conosce sa dove sia: su un vecchio veliero, in qualche mare del mondo, seduto al pianoforte.
L’amore per le note, in Francesco Micheli, ha radici antiche: l’accompagna fin dalla nascita. «È come se mi fossi scelto il padre - ammicca -: Umberto Micheli, modenese, era pianista, compositore, docente al Conservatorio. Ho vissuto un’infanzia immersa nella musica: mi svegliavo ascoltandola e mi ci addormentavo, la sera. Studiai pianoforte, armonia, composizione, poi mia madre decise: in famiglia ne basta uno, fa’ un altro mestiere». Lui obbedì, ma a metà. «Il richiamo delle arti - spiega - non lo puoi disattendere. Anni dopo fui chiamato a presiedere il Conservatorio di Milano, dove aveva insegnato mio padre: la proposta arrivò dal centro sinistra e fu confermata, poi, dal centro destra. Ho lavorato per rilanciare il Conservatorio in termini di fisicità - l’immobile che lo ospita - e di funzioni. Occupandomi della trasformazione da istituto statale a ente universitario, con l’aiuto, legale e funzionale, dell’istituto tedesco Roland Berger. E dotandolo d’una Filarmonica: studenti che suonano con gli insegnanti e danno vita a manifestazioni per i bambini, co-produzioni con la Triennale - i concerti della domenica mattina, si spazia dal jazz al barocco -, corredi musicali per grandi mostre, ché le arti figurative sono un’altra mia passione». Il direttore stabile è il maestro salisburghese Gustav Kuhn, tra i solisti ospiti spicca il nome di Salvatore Accardo, «che annovero tra i miei amici insieme ad Abbado, Muti, Manzoni. E a Maurizio Pollini, uomo difficile e misterioso, nei confronti del quale Luigi Nono confessava una “stupefatta coscienza per il suo pianismo“. Sono d’accordo: partendo da un’analisi rigorosa Maurizio riesce a raggiungere il cuore di chi ascolta, perché solo attraverso una laboriosa ricerca puoi rappresentare il cuore incandescente dell’opera d’arte, la libertà creativa dell’autore».
Nascono da questa filosofia, e da quest’uomo dai modi pacati e dall’inventiva vulcanica, iniziative molteplici. Alcune sono espressione d’un debito filiale che scavalca anche la morte: come il concorso pianistico internazionale Umberto Micheli, già tre edizioni, giurie con Luciano Berio, Alexis Weissenberg, Pollini, nel comitato d’onore Ashkenazy, Boulez, Barenboim, Petrassi, Mehta, Giulini, Sawallisch, Rostropovich. Più un cofanetto di composizioni del padre, cui Enzo Restagno riconosce «ampiezza di suono, volontà di canto, eleganza». E ancora «ebbrezze, folgorazioni improvvise e melanconie», come conferma l’ascolto dei tre cidì, tra gli interpreti Canino, Ballista, Filippini.
In più, al Francesco Micheli finanziere e manager, s’affianca il pianista che suona per se stesso, «quando l’ardore esecutivo s’accompagna al piacere interiore di leggere e d’interpretare. Suonare per gli altri richiede uno studio incessante, e il tempo mi manca: tra l’altro, la natura mi ha dato mani che funzionano, e così non studi quanto dovresti. Perciò, agli amici, preferisco fare ascoltare dei dischi». È questo il Micheli che, appena può, si rifugia sulla sua goletta, un tre alberi del 1902, cinquantaquattro metri di scafo e un nome - Shenandoah, la Stella del mare - che sa di Mille e una notte. Invece viene da una leggenda pellerossa: «Shenandoah era un capo indiano, sua figlia, cresciuta tra le montagne, sognava l’azzurro del mare. Quando lei morì, il padre annunciò: “È caduta tra le onde, per trasformarsi nella vela più bella del mondo“». L’incontro tra il magnate e il veliero avvenne anni fa, «passeggiavo nel porto di Aukland, cercavo una barca oceanica supertecnologica e, d’un tratto, “lei” m’è venuta davanti. La comprai, sedotto dalla sua bellezza e dalla sua storia». Che è una storia tormentata, dunque intrigante: la «Stella del mare» ospitò monarchi e carichi d’alcol, divenne reggia viaggiante e nave contrabbandiera, cambiò dieci padroni perché aveva ragione James Cook, «solo in due posti l’uomo dimentica se stesso, l’alcova e la barca».
Micheli la usa, invece, per ritrovarsi: «Ne ho fatto la mia casa sul mare, ci ho portato i miei giocattoli: libri, dischi, quadri - tre Balla, un magnifico Picasso - e il mio pianoforte, uno Steinway. Perché ha ragione Renzo Piano, una barca è una cassa armonica. E questa lo è ancora di più: a bordo il pianoforte interagisce con l’ambiente, sprigionando sonorità che in casa non troverei».
Qui Micheli passa ore a suonare gli spartiti che ama, «soprattutto quelli ereditati da mio padre: Debussy e Béla Bartók, grande riarmonizzatore di musiche popolari. E Beethoven, autore dalle invenzioni sfrenate, Chopin, che dal punto di vista pianistico inventò una tastiera infinita, e il repertorio barocco. In particolare Bach: quello delle Cantate e delle opere clavicembalistiche, meno l’organista. Gli interpreti che prediligo? Peccato non aver potuto ascoltare Liszt e Brahms. Amo Rubinstein per la sua “ripulitura” di Chopin, e Cortot, spesso sottovalutato per certe sue fallosità: lo ricordo ormai vecchio, a Milano, suonare un programma titanico, sbagliare un passaggio e ricominciare, con grande coraggio. Ché la musica, si sa, vince sempre, anche sugli errori. Altri? Rammento l’emozione che provammo, Arbasino e io, ascoltando Michelangeli suonare a Monaco il Concerto di Schumann. Dirigeva Celibidache e lui non voleva attaccare: c’erano le luci sbagliate. Un’altra volta, alla Sala Nervi, si sentì un cri-cri di grilli: dovettero togliere le piante che ospitavano gli insetti. Poi c’è Pollini: suona da dio, è in un periodo di felicità interpretativa assoluta. Del resto, in musica, non si può mai dire d’avere raggiunto il traguardo: si va sempre oltre. Un quadro rimane lo stesso nei secoli, in musica i grandi interpreti creano sempre del nuovo».
Tutto questo, trasportato nel ventre d’un veliero in mezzo all’oceano, distilla magie quasi sovrumane, immagino. «In effetti suonare in barca è un vertice di piacere. Per la bellezza dell’oggetto, il veliero, e perché sei in mare. Che per me non è un passatempo per il week end, è esplorazione, avventura. È la simpatica follia del capitano Nemo, e i posti straordinari che ti fa visitare: a tutto questo, la musica aggiunge un’emozione fortissima». Riservata, ahimè, a pochi: ché in Italia la musica è spesso negletta. «Vero. In Francia o in America ci sono complessi bravissimi, che chiedono l’elemosina suonando per strada e nei bar. Perché non fare lo stesso a Milano, in Galleria? Basterebbe un pianoforte al centro dell’ottagono, dove si potesse suonare in libertà».
Colpa anche dei politici? «Ammettiamolo, la destra tende a considerare la cultura come fatto di sinistra, e dunque a disinteressarsene. Ma è certo che per la mia presidenza, al Conservatorio, ho avuto un valido aiuto da Letizia Moratti e Daniela Santanché. E poi, su questo tema, preferisco volare alto». Anche se viviamo in un’epoca sorda, e l’orecchio globale si è indurito, obietto.

«In parte è vero. L’eccesso di volume, pensi alle discoteche, e l’avvento di musiche ripetitive, spesso ossessive hanno nuociuto alla finezza di giudizio. Provocando stordimento. Lo dico, badi, da uomo che ama anche il rock».

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