Il 45 per cento di giovani sballati, che partecipano alla movida per le strade delle discoteche del sabato notte, è una percentuale che oltrepassa la soglia d’allarme. È il dramma di una generazione che non riesce a trovare un proprio equilibrio e che sta annientando se stessa di fronte al cinico silenzio degli adulti. Mettiamoci una mano sulla coscienza e proviamo a domandarci quanto abbiamo fatto e stiamo facendo in questi ultimi anni per difendere una cultura della vita: risponderemo poco o niente.
Con una certa disinvoltura possiamo ricordare un campionario di considerazioni sociologiche, conosciute da tempo, con cui si mettono in luce i comportamenti dei giovani del sabato notte che finiscono nel vortice della droga. Ansia di prestazione, per cui c’è la paura di non essere brillanti e all’altezza della situazione; volontà di intensificare le sensazioni provocate dalla musica sparata a tutto volume e dal ballo di gruppo; bisogno di oltrepassare le normali barriere della resistenza fisica e del sonno. E poi c’è la timidezza da cancellare, il sentimento di potenza da aumentare, la spregiudicatezza da esibire. Insomma, tutto ciò che appare consueto, semplice, poco rischioso, banalmente sensato è il nemico da sconfiggere, appunto con la droga.
Se questa realtà è ormai così nota a tutti da essere l’origine dei più ovvi luoghi comuni sociologici, sarebbe già più interessante chiedersi come vivono questi giovani il resto della settimana. E qui si apre il baratro in cui precipitano i ragazzi che, poi, durante il sabato notte, credono di poter scalare e tornare alla superficie attraverso discoteche, droga e alcol.
Indifferenza, totale assenza di una memoria che li ricolleghi al significato di vivere: questo è lo stato d’animo che accompagna i ragazzi durante la settimana lavorativa. A scuola tirano a campare, studiano senza sapere il perché: sono ormai pienamente convinti che ciò che conta è fare quattrini, e quel miserabile del professore che è lì davanti a loro a insegnare è l’esempio del fallimento e di tutto ciò che non vogliono diventare. Un modo di pensare che purtroppo sta contagiando anche chi ha un’educazione diversa e si impegna per raggiungere buoni risultati, perché avverte la necessità di socializzare, di non rimanere isolato dal gruppo, perché sa che fuori dal gruppo c’è l’emarginazione e il dileggio. Soprattutto i maschi patiscono questa situazione. E nessuno li difende.
I genitori di figli con l’età da discoteca non hanno più nessuna possibilità di educarli, di cambiar loro mentalità. Ormai quel che è fatto è fatto, e le famiglie, o meglio l’assenza delle famiglie quando i figli avrebbero l’età per potere essere educati attraverso l’esempio e l’autorevolezza, sono le prime responsabili di questo dramma sociale.
Chi dovrebbe intervenire, se non la scuola e le leggi dello Stato? Entrambi sono disastrosamente latitanti. Il sette in condotta, il grembiule, gli esami a settembre andranno anche bene in una realtà giovanile «normale», ma sono cose grottesche di fronte all’autodistruzione dei nostri giovani. E un professore sa quando un ragazzo varca la soglia della droga, ma non può intervenire perché nessuno glielo chiede e se prendesse iniziative si troverebbe a dover fronteggiare genitori, preside, provveditore. Un datore di lavoro sa quando il suo giovane dipendente si droga, ma non può intervenire perché si troverebbe contro sindacati, commissioni interne, stampa libertaria.
E lo Stato? Sembra che il governo abbia dimenticato o sottovalutato il problema. La droga è almeno anch’essa una questione di sicurezza, qualora non si vogliano considerare altri importanti aspetti sociali. Però, oltre all’etilometro e ai controlli sulle sostanze allucinogene ingerite dentro e fuori dalle discoteche non si affronta in altro modo la questione.
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