Bruno Costi
Non tutti se ne sono accorti e forse non se ne sono accorti nemmeno loro, i leader della Cgil Cisl e della Uil, ma la politica economica del governo, iniziata nel 2001 nel segno del sindacato con la firma del famoso Patto per l'Italia, si conclude nel 2005, ancora una volta nel segno del sindacato, con il riconoscimento di un ruolo cruciale ed una legittimazione ancora più estese e profondi ad intervenire nelle scelte qualificanti della politica economica, del welfare, del fisco.
Sicché, ci si attenderebbe di trovarne traccia scritta e formale, magari in un bel protocollo di concertativa memoria firmato a Palazzo Chigi; ed invece la novità è che nasce una nuova formula di concertazione della politica economica che potremmo definire regionale, comunale, o forse meglio «federale».
Sì, perché mentre il sindacato consuma un rituale ed inutile sciopero generale, la politica economica e sociale, con la finanziaria 2006 cambia indirizzo e Cap, è nei Comuni, nelle Province, nelle regioni che si sposta il baricentro della scelta politica da cui dipende la destinazione dei soldi dello Stato per assistenza, il welfare, sussidi, la casa, le assunzioni e via dicendo. Si dirà: ma ciò è sempre avvenuto. Risposta sbagliata, perché in realtà è sempre avvenuto che un malinteso concetto di federalismo e decentramento spostasse in «periferia» le decisioni su quanto e dove spendere, ma lasciasse al «centro», cioè al Governo centrale, il compito, anzi, meglio sarebbe dire, l'obbligo di trovare i fondi per coprire le decisioni di spesa degli enti locali. E qualora il governo di Roma non avesse trovato i fondi per finanziare spese giuste o meno giuste della periferia, lo stesso malinteso senso del federalismo e del decentramento avrebbe scaricato sempre sul governo centrale la colpa delle maggiori tasse comunali o regionali che i «poveri» amministratori locali si sarebbero trovati costretti ad imporre ai loro cittadini.
Bene, non azzarderemo a dire che tutto ciò sta per finire, perché l'accusa di velleitarismo potrebbe essere la più gentile fra le tante possibili. Ma azzardiamo a dire che se la cultura della politica e del sindacato crescerà quanto quella del Paese, qualcosa su questo versante potrebbe cambiare, soprattutto se il sindacato maturasse la consapevolezza delle straordinarie potenzialità che si aprono alla contrattazione decentrata della politica economica con i governi locali.
Il seme perché ciò avvenga è contenuto nella legge finanziaria in discussione in Parlamento. Lì, viene introdotto un concetto nuovo di governo della spesa locale, alimentata tradizionalmente da trasferimenti dello Stato. Si stabilisce una politica di tagli alle spese locali come potrebbe fare un chirurgo con il bisturi: si identificano e si isolano le spese per gli investimenti che ricadono su comuni regioni e province e li si preserva da tagli; poi si isolano le spese per la sanità e si aumentano da 89 a 92 miliardi di euro; infine si isolano le altre spese correnti all'interno delle quali sono nascosti sprechi, inefficienze, regalie, consulenze inutili, viaggi premio, ed altre amenità del genere, e si delega ai Governatori ed ai sindaci di decidere all'interno di un tetto prefissato di trasferimenti globali, a cosa rinunciare, quale categorie di cittadini proteggere, insomma quali scelte politiche effettuare.
È evidente la cifra politica di questa innovazione: salve le spese per gli investimenti e per la salute, tutto il resto è frutto di valutazioni sociali, economiche, politiche. Nessuno potrà o dovrà mai dire ad un sindaco se sia meglio regalare concerti rock ai concittadini, come Veltroni al Colosseo, o asili nido gratuiti come Cofferati a Bologna. Ma saranno Veltroni e Cofferati a scegliere il bene economico da dare ai loro elettori, sapendo che un concerto in più potrà significare un asilo in meno, se i fondi disponibili sono e restano quelli. Autonomia decisionale e responsabilità, queste, che non si fermano al governo della spesa, ma si estendono anche alla politica contro l'evasione e l'elusione fiscale. Il decreto fiscale che accompagna la legge finanziaria, oltre a istituire un'agenzia per le riscossioni, introduce un interessante meccanismo di coinvolgimento dei comuni nella lotta all'evasione e contro l'economia sommersa. Al punto di delegare agli uffici tributari dei Comuni funzioni di accertamento dei redditi, anche con una certa discrezionalità tecnica, e prevedendo, che tale attività sia remunerata dallo Stato con una commissione pari al 30% dei tributi recuperati dall'evasione.
Funzionerà? I sindaci ed i Presidenti di Regione, sapranno gestire in proprio la selezione della spesa che finora rimproveravano al governo centrale di non saper fare? Sapranno, in quanto incentivati, organizzare politiche oltre che verifiche della Guardia di Finanza, diretti a attuare quella lotta all'evasione ed elusione fiscale che rimproveravano al governo centrale di non realizzare? Dipenderà dalla loro volontà e forza politica, ma dipenderà anche da quanto il sindacato saprà impossessarsi del nuovo ambito di attività che gli si dischiude davanti. Sarà infatti lì, ai tavoli comunali e regionali che si giocherà la distribuzione delle risorse per il welfare sul territorio, per il potere d'acquisto eroso dai prezzi dei servizi pubblici locali, del commercio, per gli inquilini a basso reddito.
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