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Obama ci ripensa: sì ai tribunali speciali

Un'altra marcia indietro. O meglio: una mezza marcia indietro com'è, ormai, nel suo stile: quello di semipresidente, che prende decisioni, annuncia riforme, mantiene certe promesse elettorali. Ma sempre a metà. Barack Obama ha costruito il suo successo sulla promessa, anzi sul mito, del cambiamento; in realtà la sua rapidissima ascesa politica è dovuta soprattutto alla capacità di navigare tra i poteri forti, senza urtarli e dunque senza cambiare mai davvero le cose. Il suo bilancio come senatore dell'Illinois è istruttivo: Obama era conosciuto come Mister astensione. E quando è sceso in campo per le primarie si è ben guardato dal rifiutare l'abbraccio della casta dei banchieri, guidata da Rubin e da Summers, che gli ha suggerito il nome di Timothy Geithner come ministro del Tesoro. Diventato presidente, non è cambiato; perché questa è la sua indole. Più da democristiano d'altri tempi, che da vero innovatore.
A Washington ne dà conferma quasi ogni giorno. L'ultima riguarda i detenuti di Guantanamo. In campagna elettorale era stato perentorio: riteneva inaccettabile che i prigionieri fossero processati da una Corte militare, anziché da un Tribunale civile. Sosteneva che così i diritti alla difesa erano fortemente limitati e che i giudici venivano incoraggiati a emettere sentenze di condanna. Aveva ragione: i processi nella base militare cubana non rispecchiavano certo lo stato di diritto garantito dalla Costituzione americana. E il 20 gennaio Barack era stato di parola. Poche ore dopo il giuramento, aveva firmato un decreto per sospendere i processi a Guantanamo.
Ma ora è costretto a ricredersi e in settimana firmerà l'ordine inverso: i casi degli ultimi 241 prigionieri saranno esaminati dai procuratori militari. I consiglieri giuridici di Obama hanno capito che il trasferimento alle Corte civili si sarebbe risolto in un groviglio legale, con il rischio che a essere condannato fosse lo Stato americano, anziché i sospetti terroristi, i quali, potendo denunciare le torture subite, sarebbero passati automaticamente dalla parte della ragione. Come ovvio, peraltro: le leggi Usa vietano che le confessioni vengano estorte con la violenza. E, secondo il New York Times, gli uomini del presidente si sono accorti, che «la situazione lasciata dall'Amministrazione Bush non era così brutta come temuto». E allora via al dietrofront, che però espone Obama all'accusa di incoerenza.
Sì, perché i detenuti sono stati torturati davvero. Lo ha dimostrato lui stesso un paio di settimane fa, pubblicando i quattro memorandum, in cui sono descritte le brutali tecniche di interrogatorio autorizzate dalla Casa Bianca tra il 2002 e il 2005 nei carceri usati per la guerra al terrorismo. Ma, come sempre, Obama non è andato fino in fondo. Ha denunciato il peccatore, presto, la diffusione di altre fotografie, come quelle di Abu Ghraib; ma senza individuare e tantomeno punire i peccatori. Il presidente che affascina il mondo ha resistito alle pressioni di molti democratici che invocavano se non un processo, perlomeno una commissione d'inchiesta per sapere, ad esempio, se davvero Condoleezza Rice sia stata la prima ad autorizzare le sevizie e fino a che punto ne fosse consapevole lo stesso George Bush.
Obama non ama correre rischi e nei suoi primi cento giorni al potere è stato richiamato bruscamente alla realtà. Ha scoperto che è difficile cambiare l'impostazione della guerra al terrorismo senza esporre al ridicolo il proprio Paese e che gestire l'America è complicato, anche per un equilibrista come lui.
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