Obama e l’Africa: «Il futuro è solo in mano vostra»

I deputati ghanesi lo hanno accolto cantando «Yes, we can». Barack Obama ha risposto: «Yes, you can». Non sarà l’America a salvare l’Africa, bensì il Continente nero a risollevare se stesso. Questa la sfida, questo il messaggio, coraggioso, controcorrente. Il presidente che ha «sangue africano nelle vene», anziché indugiare sui sensi di colpa dell’Occidente o rifugiarsi nella retorica dell’aiuto allo sviluppo, ha approfittato del suo primo viaggio a sud del Sahara per incoraggiare l’Africa ad assumersi le proprie responsabilità e a determinare finalmente il proprio destino. La scelta del Ghana non è casuale: è un Paese democratico, conosce uno sviluppo economico promettente e pertanto è un esempio da seguire.
È stato un discorso bello, appassionato, sentito, in cui ha alternato toni da predicatore e analisi da docente universitario. «Lo sviluppo dipende dalla buona governance. Questo è l’elemento che è mancato in troppo luoghi e troppo a lungo e che può sbloccare il potenziale di questo continente», ha ricordato Obama parlando di «un continente «che non è separato dal mondo», ma il cui destino «appartiene agli africani» e che non potrà essere felice fino a quando prevarranno «la tirannia e la corruzione».
«Non avete bisogno di uomini forti, ma di istituzioni forti. Nessun Paese crea ricchezza, se i suoi leader sfruttano l’economia per arricchirsi o se la polizia può essere comprata dai trafficanti di droga. Nessuna impresa vorrà investire in posti dove il governo si prende il 20% dei guadagni o dove il responsabile portuale è corrotto».
Il capo della Casa Bianca è convinto che «nel XXI secolo, la chiave del successo sia in istituzioni capaci, affidabili e trasparenti», ossia «parlamenti autorevoli e forze di polizia oneste, giudici e giornalisti indipendenti, un settore privato e una società civile vitali».
E spetta soprattutto ai giovani realizzarli. «Tocca a voi gettare le fondamenta della libertà - li ha spronati con la consueta, travolgente carica retorica -. Voi avete il potere di chiedere conto ai vostri leader di quanto fatto e di esigere che siano create istituzioni al servizio della gente. Voi potete servire le vostre comunità e usare la vostra energia e la vostra istruzione per creare nuova ricchezza e nuovi legami con il mondo. Voi potete battere le malattie, mettere fine ai conflitti ed essere protagonisti del cambiamento. Non sarà facile, ma potete farlo: yes, you can».
E l’America «sarà al vostro fianco», sebbene senza indebite ingerenze. «Gli Usa non cercheranno di imporre alcun sistema di governo a nessuna nazione. La verità essenziale della democrazia è che ogni Paese determina da sé il proprio destino». È il mantra della nuova politica estera americana, in netta rottura rispetto a quella interventista di Bush. L’America di Obama non invade e non comanda, ma ispira e sostiene «gli individui e le istituzioni responsabili». O almeno ci prova e continua a suscitare entusiasmo. Al Cairo come a Berlino, a Parigi come ad Accra, dove una folla immensa si è riversata nelle strade nella speranza, rivelatasi vana, di scorgerlo almeno per un secondo.
Concluso il discorso al Parlamento, Obama con la moglie Michelle e le due figlie è volato in elicottero a Cape Coast, la fortezza dove nel XVII secolo venivano rinchiusi gli schiavi prima di salpare per l’America «nel viaggio senza ritorno». E Obama ha perso il sorriso. Da quel porto partirono gli avi di Michelle. Un ritorno alle origini che lo ha commosso. «Per quanto dolorosa sia, questa fortezza ci insegna che bisogna fare quanto possibile per combattere l’oppressione e la crudeltà che purtroppo ancora esistono non solo in questo continente, ma in tutto il mondo», ha affermato, scuro in volto.

«È giusto che Malia e Sasha vedano», ma che siano consapevoli anche del «coraggio di tanti bianchi e neri per abolire lo schiavismo».
E della realtà di un Paese come il Ghana, che «nonostante quanto successo nel passato a Cape Coast, è riuscito a compiere progressi straordinari». Sempre e comunque «yes, you can».

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