Quando arrivò in Europa nel luglio scorso, Barack Obama venne accolto da una folla oceanica a Berlino, mentre i leader dei grandi Paesi sgomitavano per farsi ritrarre al suo fianco. Era l'uomo della speranza, della fiducia, di un'America che, nonostante la presidenza Bush, era ancora considerata la potenza di riferimento. Ma Wall Street non era ancora crollata. Domani Obama tornerà in Europa con un programma molto intenso: sbarcherà a Londra per il G20 e per l'incontro con il presidente russo Medvedev, giovedì sarà a Strasburgo al vertice della Nato e al summit con la Merkel e Sarkozy, venerdì andrà a Praga dove è in programma la riunione euro-americana, sabato effettuerà la prima visita in un grande Paese musulmano, ovvero la Turchia. La sua popolarità è ancora altissima e tutti i leader, non solo europei, lo accoglieranno festosi. Il successo di immagine è assicurato e sarà amplificato da un incontro a Praga con i giovani della Repubblica ceca e in collegamento video con i giovani di tutto il mondo.
Eppure politicamente il viaggio di Obama rischia di passare alla storia come uno dei più grandi insuccessi della diplomazia o, più probabilmente, come il primo di un'America a cui il mondo non riconosce più lo status di superpotenza. Un'America che, svanita l'arroganza dei neoconservatori, «viene ad ascoltare», come ha riconosciuto il portavoce presidenziale Robert Gibbs e che non potendo più di dar lezioni conta «di continuare a guidare attraverso l'esempio». Un'America contrita, umile, quasi supplicante, che dà l'impressione di essere disposta a far la pace con chiunque in cambio del riconoscimento della sua importanza.
Il nodo è rappresentato dalla crisi finanziaria. Europa, Cina e Russia non hanno ormai dubbi: la responsabilità della crisi mondiale è degli Stati Uniti e di un modello economico che, attraverso la globalizzazione, ha contagiato il mondo, liberando da ogni controllo banche e gruppi finanziari, che hanno assunto un potere enorme, spropositato. E ora devono essere gli Usa a uscire dai guai. Da soli. Il messaggio più forte che verosimilmente emergerà da questo intenso viaggio di Obama è proprio questo. L'Europa ha deciso di non seguire l'America sulla via del rilancio economico, perlomeno non secondo le modalità statunitensi. Obama, in circa due mesi, ha approvato misure, che, inclusi i salvataggi delle banche e delle industria in difficoltà, toccheranno l'astronomica cifra di 4500 miliardi di dollari, pari quasi al 30% del Pil. E per settimane l’amministrazione Obama, con il martellante sostegno della stampa, ha tentato di convincere l'Unione europea ad uniformarsi agli Usa. Ma la cancelliera tedesca Merkel, spalleggiata da Sarkozy, ha tenuto duro e ha vinto. Sabato i consiglieri della Casa Bianca hanno annunciato che Obama non insisterà con i leader dei venti Paesi più importanti del pianeta sulla necessità di varare la prima, grande, coordinata manovra mondiale. La bozza della risoluzione, trapelata su un giornale tedesco, esprimerà un auspicio generico, senza alcun vincolo. Come dire: ognuno faccia da sé.
Anche sull'altro dossier importante, l'Afghanistan, Obama tornerà a Washington, quasi certamente, a mani vuote. Il copione è identico. Un paio di mesi fa il presidente Usa ha deciso una nuova offensiva contro i talebani, che comporta l'invio di altri 30mila marines, e per settimane ha sollecitato gli alleati europei a fare altrettanto. Un mese fa ha inviato a Bruxelles il suo vice Joe Biden che, in un summit della Nato, ha usato toni assai bruschi per convincere i Paesi «riottosi». Invano: l'opinione pubblica europea non accetta di mandare altre truppe e, in tempi di crisi, sono pochi i governi disposti a sfidare le piazze. La tendenza, semmai, è al ritiro da Kabul.
Ovunque Obama si volti, c'è un problema.
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