Cultura e Spettacoli

Occhio all’avanguardia: farà cambiare musica anche a classica e rock

Occhio all’avanguardia: farà cambiare musica  anche a classica e rock

Quando si allude alla «musica contemporanea» la stragrande maggioranza del pubblico sedicente musicofilo è in allarme. Per esorcizzare la «contemporanea» c’è chi fa gli scongiuri, chi evita le manifestazioni specializzate, chi risponde: mi piace Ennio Morricone - musicista cui va tutta la nostra stima e un po’ d’invidia da parte dei colleghi che lo vedono da anni in testa per diritti d’autore.
È innegabile che l’immaginario collettivo associ alla musica del nostro tempo strazianti maratone in cui gruppetti di ascoltatori, critici e autori si applaudono fra loro, fra sbadigli e riprovazioni degli eventuali malcapitati. Il decano dei nostri direttori d’orchestra, Bruno Bartoletti, che di musica del suo e del nostro tempo ne ha diretta moltissima, ricorda che non bisogna «affastellare i concerti raggruppando i contemporanei insieme, perché è come metterli in una riserva indiana. Il nuovo si deve confrontare sempre con i capolavori d’ogni tempo, in attesa che il tempo operi le sue distinzioni». Un critico musicale indimenticato, Fedele d’Amico, che è stato accusato di tutto, ma non certo di pigrizia, invitava gli organizzatori musicali soprattutto negli anni ’70 ad apporre, invece della solita indicazione «prima rappresentazione assoluta», quella di «ultima rappresentazione assoluta», dando la garanzia che di quel brano non ci sarebbero state più repliche. La provocazione riguardava musiche spacciate da critici cinici come capolavori, vuoi per contiguità ideologica, vuoi per paura di rimanere «fuori dal giro».
In Italia la distanza fra pubblico e autori non è una questione di linguaggio o di anagrafe. Lo conferma un compositore fra i più eseguiti e sorprendenti, Giorgio Battistelli. «Si possono avere ottant’anni e scrivere musica non vecchia, come succede ad Hans Werner Henze». Guarda caso Henze è un artista che ha seguito la sua strada, con molto coraggio. E non gli sono mancati gli «avvertimenti». Il più clamoroso lo ebbe nel tempio nella Nuova Musica anni Cinquanta: Donaueschingen. Dopo poche battute tre mammasantissima come Pierre Boulez, l’amico Gigi Nono e Karl-Heinz Stockhausen uscirono dalla sala in segno di disapprovazione per il passo falso del collega. La colpa? Forse piacere al pubblico. Battistelli ci ricorda che Theodor W. Adorno, autore delle leggi mosaiche dell’avanguardia iconoclasta, aveva scomunicato tutto ciò che suona bene, perché borghese. Oggi, finalmente, per Battistelli si può guardare veramente avanti. «È necessario un coordinamento nazionale per creare punti di riferimento e stimolare la creatività che vive di confronto. Come al Festival di Salisburgo, dove le musica contemporanea è affidata ad interpreti di grande livello ed è diventata normalità. Lì il pubblico è stato preparato, nutrito, non si chiude nella convenzione», non è vittima di preclusioni già imputate agli appassionati della «tradizione». «Ci vogliono progetti. Tutti si lamentano della mancanza di soldi. Piuttosto in giro mancano idee».
Per decenni numerosi critici musicali, non solo nei fogli settoriali o nei bollettini editoriali, ma sui maggiori quotidiani nazionali, hanno proclamato a un pubblico intimorito la supremazia di una scuola italiana nell’Occidente musicale. Ma chi usciva dal Belpaese si rendeva conto che le cose in Inghilterra, in Scandinavia, in Russia, andavano diversamente. «L’Italia è l’unico Paese in cui si è stabilito quale fosse la scuola giusta e quella sbagliata», afferma Marco Tutino, compositore che appartiene a un gruppo (Ferrero, Galante, Boccadoro) che ha contestato le liste di proscrizione. «Quella propaganda era sostenuta da una lobby di critici e compositori che aveva deciso che c’era posto solo per loro. Questo finto modello progressista si è ritorto contro gli stessi, ma ha portato un danno enorme al rinnovamento e alla vitalità», dopo il noto decennio delle intimidazioni. Oggi è chiaro a tutti che partiti, scomuniche, barriere, non servono: «La cultura ha bisogno di aria, di spazio, di confronto. Se si ha paura, si è solo provinciali. Comunque il mondo non ci invidia nulla».
Alessio Vlad, direttore artistico del Teatro dell’Opera di Roma, sostiene la necessità di credere fino in fondo negli autori, impegnando le migliori risorse delle istituzioni, come si fa negli Stati Uniti, uno dei Paesi che investe e ottiene successi anche nel difficile campo operistico (vedi Dr. Atomic di Adams e Un tram che si chiama desiderio di Previn). A Chicago, dopo l’esecuzione di un brano del compositore residente dell’orchestra sinfonica, Mason Bates, orchestrali e compositore si sono trasferiti a suonare la sua musica in un capannone riadattato a discoteca. «Un giovane compositore che suona con elementi di una delle migliori orchestre del mondo è un modo per far cadere le barriere, così non è più un’esperienza per iniziati». D’altra parte, i compositori italiani sono apprezzati ed eseguiti all’estero. Oltre ai citati, Ivan Fedele, Luca Francesconi, Fabio Vacchi, per citarne alcuni.
«Occorre accettare una programmazione che contempli assieme a Beethoven e Schubert, gregoriano, musica elettronica o rock», precisa Battistelli. Il tempo infatti ha premiato autori «mobili» come Maderna e Berio, e oggi Azio Corghi, non chi si è alimentato solo di ideologie. In conclusione il mondo della musica è in attesa di chi, avendo metabolizzato antico e moderno, possa mettere tutto al posto giusto. A tre musicisti diversi ma autentici, Ligeti, Henze e Berio, Battistelli ha chiesto la stessa cosa in periodi differenti.

Quale è la condizione per essere operisti? La risposta è stata univoca: l’impurità.

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