«Occorre un New deal per l’industria agricola»

Federico Vecchioni, presidente della Confagricoltura da cinque anni, si batte per una riforma complessiva del settore, che al momento «non è all’ordine del giorno del governo». «Noi - annuncia - stiamo preparando un progetto complessivo per il rinnovamento del lavoro agricolo, per il suo inserimento nella filiera alimentare e per meglio equilibrare il reddito dei vari segmenti. In marzo presenteremo a Taormina lo scheletro delle nostre proposte. Sarà il nostro new deal».
Presidente, come sente la crisi l’agricoltura italiana?
«Guardiamo le cose in positivo: la crisi dev’essere proprio l’occasione per cogliere nuove opportunità. In termini di nuova ricchezza e di nuove potenzialità per il prodotto interno lordo. L’approvvigionamento di materia prima nazionale è importante per i trasformatori e per il potere d’acquisto dei consumatori. Per dare stabilità ai prezzi».
Come si è chiuso il 2009?
«Con forti preoccupazioni per i prezzi all’origine, quelli pagati agli agricoltori, e sono urgenti provvedimenti per sostenerli. I dati statistici diffusi da Eurostat sono allarmanti».
Che cosa dicono?
«Che il reddito degli agricoltori italiani è sceso del 25% dal 2002 a oggi. Già questo numero dice tutto, mentre noi pensiamo che l’agricoltura vada rimessa al centro di una moderna politica economica».
Come si può raddrizzare la situazione?
«Partendo da riduzione dei costi di produzione, e poi con innovazione, tecnologie, semplificazione, alleggerimento burocratico, competitività...»
Dice poco!...
«La figura dell’imprenditore agricolo va integrata nella catena del valore. Più l’agricoltura diventerà non solo produzione ma anche trasformazione e vendita, più potrà svolgere un ruolo importante sui mercati internazionali».
L’export è un punto di forza.
«Nei primi dieci mesi del 2009 il fatturato del principale prodotto esportato, la frutta, è calato di 500 milioni di euro, da 2,4 a 1,9 miliardi. I volumi sono rimasti invariati, quello che è crollato è il prezzo. Ora, è evidente che occorre recuperare la capacità di penetrazione nei mercati per non essere battuti da Spagna o Sud America. Un altro esempio è il vino, altro prodotto molto esportato»
Com’è andata?
«Da gennaio a ottobre ha perso il 6% in valore, pari a 180 milioni: paradossalmente in quantità è addirittura aumentato. Sono due esempi di importanti voci di export. La qualità del made in Italy è sempre stata considerata l’elemento essenziale per la competitività del nostro prodotto. Invece con la qualità, che resta centrale, occorrono capacità competitive su prezzo e organizzazione. Occorrono costi più contenuti per intercettare nuova domanda nei mercati di sbocco. Poi, un’altra cosa».
Quale?
«L’efficienza di tutta la filiera. O l’eccellenza del prodotto si accompagna alla capacità di gestire i vari passaggi, o si finisce per perdere valore».
La filiera è sempre stata un fattore critico.
«In questi anni la conflittualità all’interno della catena è stata definita una guerra tra poveri. Esempi sono la pasta, il latte, l’ortofrutta. I prodotti partono da prezzi all’origine bassi, e arrivano al consumatore con ricarichi anche del 300%».
Di chi è la colpa?
«Di una catena lunga con molti soggetti che gravano sul prodotto, a danno sia dei produttori che dei consumatori. Troppe mani, troppi passaggi. Tuttavia, se l’energia aumenta del 30%, i trasporti del 24%, il lavoro dipendente del 13%, è evidente che non si può ridurre tutto a una contrattazione tra produttori e distribuzione: è l’intero sistema ad essere responsabile, con una catena del valore non competitiva».
E dove stanno le risposte?
«Efficienza, innovazione, riduzione dei costi. Anche le biotecnologie sono una risposta».


Sugli Ogm c’è stata una battuta d’arresto, la scorsa settimana
«In Italia c’è un approccio emotivo, demagogico e populista verso gli Ogm. È impedito sperimentarli, ma il 92% della soia che importiamo è Ogm. Si tratta di no pregiudiziali come sul nucleare: non si produce, ma si importa. Con danno per il Paese».

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