Ormai di fronte alle sconfitte sanno soltanto invocare i pm

La sua maggioranza si disintegra e Rosa Russo Iervolino chiama in aiuto la toghe. «Chiedo alla magistratura di metterci il naso», spiega il sindaco di Napoli che prova a gestire per via giudiziaria il proprio fallimento politico. E infatti, il primo cittadino accusa in blocco i trentuno consiglieri - in gran parte dell’opposizione ma anche transfughi della maggioranza - che si sono dimessi. «Non ho elementi certi, altrimenti li avrei già denunciati». Anche lo scioglimento rischia di diventare una farsa, dopo che in serata la Prefettura ha «congelato» l’iter per colpa di qualche irregolarità formale che inficia molte delle dimissioni. Ma ormai è soltanto questione di tempo.
Quella di invocare il soccorso rosso dei pm mon è un novità, ma è una tendenza che sta diventando una moda. Specialmente a sinistra. Manovre, spostamenti, ribaltoni. Invece di prendersela con la fragilità della politica, i leader dei partiti che scricchiolano si appoggiano ai giudici come a una stampella. Una protesi per reggere all’erosione del consenso, nel momento in cui, come a Napoli, le gambe della maggioranza non reggono più la coalizione.
Capita a Napoli, nel perimetro della disastrata amministrazione comunale. È successo una settimana fa a Roma, nell’ennesimo atto della battaglia che si combatte sul confine, affollato, fra maggioranza e opposizione, fra centrodestra e centrosinistra. Gino Bucchino, deputato del Pd eletto nella circoscrizione Nord e Centro America, denuncia un’offerta irricevibile giunta, attraverso un intermediario, da Denis Verdini: 150mila euro e rielezione sicura nel caso di trasloco nel recinto della maggioranza berlusconiana. Si sa, per mesi, il Pd e tutti gli altri pezzi dell’opposizione avevano vagheggiato l’implosione del centrodestra ormai ridotto al lumicino. Poi è partita la controffensiva, la spallata non c’è stata, ad ogni votazione il Cavaliere guadagna una manciata di consensi. Ed ecco che scoppia il caso Bucchino. Verdini la butta sul ridere: «No, questo Bucchino non lo conosco. Io conosco Italo Bocchino. Ma quello sarebbe costato molto, molto di più».
La procura di Roma invece si muove e apre un fascicolo. È il solito atto dovuto, si dice ritualmente così, l’inchiesta che finirà in un vicolo cieco, ma intanto un qualche risultato concreto si vede. I titoli dei giornali, l’inquietudine degli incerti in meditazione sulla loro futura collocazione politica, lo sbandamento dell’opinione pubblica. Di solito queste indagini finiscono in archivio, ma intanto Bucchino rilancia: «Sono pronto a riferire ai magistrati sull’offerta di 150mila euro se questi lo riterranno opportuno».
È un ritornello che si ripete. Un film già visto. Solo tre mesi fa. A dicembre, quando la caduta del governo Berlusconi appare imminente e i giornali si sbizzarriscono evocando il 25 luglio se non, addirittura, il 25 aprile. La fine di un’epoca, quella berlusconiana, appare questione di ore. Invece, a sorpresa, due deputati dell’Italia dei Valori, Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, si spostano dall’altra parte dell’emiciclo e l’esecutivo strappa la fiducia. Antonio Di Pietro, che da una vita perde compagni di cordata, parlamentari e consiglieri di qualunque estrazione, si precipita in procura. E rilascia dichiarazioni di fuoco: «Ci troviamo in presenza di fatti gravi, penalmente rilevanti, che coinvolgono esponenti politici nelle istituzioni parlamentari e che in un paese civile non dovrebbero mai accadere». Già che c’è, l’ex pm affibbia pure il titolo all’inchiesta dei magistrati della capitale: Fiduciopoli. Pallida, pallidissima replica di Tangentopoli. E poi di Affittopoli. Fiduciopoli, anche se Di Pietro è già stato sfiduciato nel tempo da Giulietto Chiesa, Elio Veltri, Pietro Mennea, Pino Arlacchi e persino nel lontano 2001 da Valerio Carrara, l’unico senatore del partito, che nel giro di 24 ore passò fra le truppe dell’odiato Berlusconi.
Compravendite. Sospetti, i soliti. E inchieste destinate al naufragio. Alla fine del 2007 Silvio Berlusconi avrebbe brigato per portare dalla sua parte il senatore Antonio Randazzo, eletto per l’Ulivo nello sterminato collegio Asia-Africa-Oceania-Antartide, e altri parlamentari. La procura di Napoli si scatena e il Cavaliere viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di istigazione alla corruzione. Poi, il proscioglimento. Se si ha la pazienza di andare ancora più indietro, al 2006, sorpresa, ecco rispuntare lei: Rosa Russo Iervolino.

Che alla vigilia delle amministrative punta il dito contro il tariffario del voto: da 30 a 70 euro. Segue, puntigliosa, l’inchiesta. Ma segue anche la rielezione a sindaco della Iervolino. L’allarme cessa. Fino a ieri. E ora il procuratore Giandomenico Lepore si prepara: «Valuteremo le dichiarazioni della Iervolino».

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