Un Paese in crisi da quarant’anni

Il mio scritto Breve ritratto di un Paese in declino di lunedì 23 luglio mi ha procurato diverse lettere, alcune con qualche rimprovero per il mio pessimismo. «Ci metta più ottimismo nelle sue ottime analisi», scrive un lettore. Occorre dunque che torni sul tema.
Comincerò con qualche testimonianza personale. Nel 1968 pubblicai per Longanesi un saggio sulla contestazione studentesca dal titolo I figli sulle barricate. Vi giudicavo il fenomeno un fatto positivo, illuso - ero giovane - dalla speranza che quella contestazione fosse l’avanguardia di un grande processo di rinnovamento e modernizzazione delle istituzioni e della cultura generale del nostro Paese, ch’era costretto - e questo era realtà - dentro schemi obsolescenti che ne impastoiavano ogni dinamicità.
Qualche anno dopo - era appena nato Il Giornale, dove m’ero arruolato con entusiasmo - Montanelli mi chiese di incontrare don Giussani, l’animatore di Comunione e Liberazione, che aveva raccolto attorno a sé tanti studenti cattolici. Avemmo una lunga conversazione che me lo rivelò personaggio eccezionale, carico di spiritualità. Gli chiesi, tra l’altro, perché mai i suoi giovani seguaci si esprimessero e si comportassero a volte come gli extraparlamentari della sinistra.
Ne ricordo con precisione la risposta: «Devono farlo per non rimanere tagliati fuori dal nuovo che c’è nel mondo giovanile». La contestazione aveva fatto breccia anche in quel sant’uomo.
Non passò molto tempo e quel fenomeno, che aveva illuso non pochi e non solo spiriti inquieti, degenerò in violenza e terrorismo, raggiungendo il culmine con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Fu la fine di ogni illusione in chi aveva sperato in un soffio di rinnovamento della società italiana. In Francia, dove c’erano stati i prodromi della contestazione, De Gaulle la definì «follia estremista».
I maggiori guai li provocò in Italia, dove tuttora se ne avvertono i disastrosi effetti. Vediamo di capire perché. La politica non fu all’altezza della situazione, non seppe portare le sue ragioni, la sua razionalità nel movimento innovatore insediatosi negli atenei. Mancarono la spinta politica e l’afflato culturale che avrebbero potuto fare da guida ai giovani contestatori.
I quali cercarono in se stessi, nella propria immaturità, le soluzioni alle loro irrequietudini, che in alcuni si trasformarono in disillusioni così forti da portarli alla scelta della violenza e del terrorismo.
Li aiutarono in questa drammatica e spaventosa scelta cattivi maestri, coscienze mostruose. Quella che era sembrata, e poteva essere, una sana spinta liberale e libertaria divenne, come la definì Raymond Aron, «rivoluzione nichilista», tanto da portare Pier Paolo Pasolini, personaggio non certo della destra, a simpatizzare per i poliziotti.
Grande responsabilità l’ebbe la sinistra, che incoraggiò, a volte apertamente, a volte in maniera ambigua, la rivolta studentesca, che si estese con esiti terroristici anche nelle fabbriche. Il movimento contestatore nato nel 1968 finì così subordinato all’ideologia comunista. La presunta rivoluzione culturale finì col nutrirsi di maoismo, castrismo, di ideologie antiliberali, che allarmarono, quando ormai era tardi, persino intellettuali come Rossana Rossanda del Manifesto e i vertici del Pci.
A quarant’anni di distanza dall’insorgere di quel fenomeno, i disastri in Italia sono visibili e tangibili: lassismo in tutti i settori della vita pubblica (e non solo), una scuola rovinata, tutt’altro che formativa e selettiva, lo scardinamento di molte istituzioni, una giustizia politicizzata e svalorizzata (l’impunità ai pentiti ha decisamente infirmato il sistema penale), mortificati i valori su cui regge una società sana e giusta, e l’elenco delle negatività potrebbe continuare.


Cari lettori, si può essere ottimisti in simili condizioni? Quanto ci vorrà per uscire da tale geenna? Quanto tempo, quali provvedimenti, quali riforme? Avrebbe detto Bartali, nella sua semplicità: «L’è tutto da rifare». E chi ne sarà capace?

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