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Paghiamo caro i servizi «azzerati» voluti da Prodi

L’Aise, il servizio segreto militare che fino a due anni fa si chiamava Sismi, conta su un organico di circa 2500 agenti segreti. Di questi solo una piccola parte presta effettivamente servizio fuori dai confini nazionali. Ed in Afghanistan, nel «teatro» di operazioni militari più importante in cui l’Italia è oggi impegnata, risultano presenti meno di dieci 007 dell’Aise.
È un dato cui è difficile credere, tanto impervio appare immaginare che tipo di attività di intelligence possano mettere in atto meno di dieci agenti segreti in un territorio grande il doppio dell’Italia. Eppure è da qui che bisogna partire se si vuole davvero capire come sia stato possibile che i preparativi, i sopralluoghi, i contatti necessari ai talebani per mettere a segno un attentato come quello di ieri siano passati sostanzialmente inosservati ai nostri servizi di sicurezza. A differenza, per esempio, di quanto accadde per la strage di Nassirya, preannunciata - come rivelato a suo tempo dal Washington Post - da tre rapporti del Sismi rimasti inascoltati.
Cosa è cambiato da allora? Semplicemente, la nostra intelligence militare ha subìto una rifondazione quasi totale sull’onda dell’inchiesta per il rapimento Abu Omar che ha travolto il suo numero uno Nicolò Pollari e il suo braccio destro Marco Mancini. Certo, sarebbe ingeneroso verso gli attuali vertici dei nostri servizi sostenere che con Pollari e Mancini al loro posto la strage sarebbe stata sventata. Ma è un dato oggettivo che a fronteggiare l’emergenza terrorismo nel momento più difficile nel teatro afghano l’intelligence italiana schiera una squadra tutta nuova (solo il capo del procurement, l’unità antiproliferazione è ancora al suo posto).
Un generale dei paracadutisti guida la divisione Ricerca da cui dipendono i dieci 007 piazzati in Afghanistan. Un colonnello dei carabinieri comanda il Reparto infoperativo, la struttura antiterrorismo. E in questo ribaltone a restare atrofizzati sono stati i legami col terreno, con le fonti locali che erano la vera forza della gestione Mancini. Si trattava di un centinaio di doppiogiochisti arruolati, addestrati e messi a libro paga che consentivano al vecchio Pollari di considerare zona franca interi pezzi di Afghanistan, soprattutto a ridosso delle zone tribali, e di dialogare con le fasce «morbide» dei talebani. Con il risultato di riportare a casa incolumi - a riscatto pagato, ovviamente - i primi italiani rapiti in zona, la cooperante Clementina Cantoni e il giornalista Daniele Mastrogiacomo.
Sui metodi - concreti ai limiti del cinismo - della gestione Pollari si potrebbe discutere a lungo. Ma di certo lo spoil system, l’azzeramento attuato da Prodi dopo il caso Abu Omar, ha avuto conseguenze immediate: come se si fosse incrinato quel rapporto complesso, fatto di comprensione umana e di pagamenti regolari, che lega gli 007 alle loro fonti. Due anni fa, il 12 settembre 2007, il primo a farne le spese fu il maresciallo Lorenzo D’Auria, un ex della Folgore (come i morti di ieri) appena passato al Sismi: lo mandarono in missione alla ricerca di fonti, i talebani lo rapirono, venne abbattuto da un colpo alla testa durante il raid delle teste di cuoio inglesi che dovevano liberarlo.
Da allora è stato un crescendo di attentati contro gli italiani, fino alla strage di ieri. Che non erano certo i sette o otto agenti segreti sparsi per l’Afghanistan a poter prevenire.

Ma i cui preparativi sono passati sotto il naso anche della imponente e costosa rete di Sigint (cioè di intercettazioni satellitari modello Echelon) su cui la nuova Aise sta concentrando risorse e speranze.

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