Pagliai, maestro nel racconto dell’estrema fragilità umana

Giuseppe Corte, maturo avvocato 56enne colpevolmente rientrato alle tre di notte da un convegno amoroso, viene accolto dall'anziana madre con rimbrotti a prova di udito condominiale: è Ugo Pagliai, protagonista, con Paola Gassman, di Sette Piani, adattamento scenico di Michele Ainzara dell'omonimo racconto di Dino Buzzati, in scena al Duse fino a domenica. Lo spettacolo, diretto da Paolo Valerio e prodotto dallo Stabile di Verona per il centenario della nascita dell'autore, si apre nell'atmosfera onirica dei disegni di Buzzati, per passare poi all'antefatto del racconto. Tra telefonini e reality, la vita routinaria dell'avvocato Corte si anima di briose trovate da commedia all'italiana: corteggiato dalla spavalda Elisabetta (Paola Gassman), l'impacciato Giuseppe si fa letteralmente trascinare a casa della donna; e che dire dell'efficienza della neoassunta segretaria (la «trasformista» Michela Ottolini, timida impiegata e infermiera sexy) che, ripresa per aver buttato la pubblicità della posta, gliela riversa sulla scrivania direttamente dal cestino? La scenografia, costituita dallo studio dell'avvocato e da ambienti via via evocati con teli disegnati (l'officina, la scuola), in comunicazione solo telefonica, crea un mondo raggomitolato su se stesso, lo spazio chiuso dell'abitudinario protagonista, «incapace di guardare gli altri negli occhi». Divertenti anche i tentativi di ottenere una diagnosi telefonica o, almeno, «fotografica»; ma qui affiora, insieme al fastidioso brufolo sotto l'occhio di Giuseppe, una sotterranea sensazione di disagio.
E sull'immagine «occhio» la regìa insiste molto, avvalendosi di proiezioni dal vivo e dipinti dello stesso Buzzati. La seconda parte, ambientata in una stanza d'ospedale man mano sempre più spoglia, segna una cesura drammatica con la prima, immergendoci davvero nel mondo surreale di Buzzati. Giuseppe è ora ricoverato nella clinica specializzata in «ortofosfoplasmosi», il grottesco e il tragico della situazione erompono prepotentemente: la miope «scherzosa disinvoltura di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano», le sette «caste» in cui sono divisi i malati, le congiure dei medici, i referti mai mostrati creano un vortice in cui il protagonista viene risucchiato, in una discesa infernale in cui banali problemi telefonici non gli consentono nemmeno di dichiarare finalmente il suo amore a Elisabetta.
La sgomenta consapevolezza dell'inarrestabile scivolare verso la fine accomuna protagonista e spettatore, alleviati dall'ironia buzzatiana: ormai al secondo piano, l'avvocato porta al collo un cartello che recita «Giuseppe Corte del 3° piano, di passaggio».
Malasanità? Il sospetto dell'allusione sorge spesso, ma quel che domina è una pietosa constatazione della fragilità umana, vittima di un destino imprevedibile, che consegna l'uomo alla morte impreparato ed incredulo.


Così l'avvocato affronta da solo la discesa al primo piano, perché, ci ripete De Andrè, «quando si muore, si muore soli»: e lì, dove si accostano le finestre di chi è deceduto, Giuseppe suggella la propria morte con un canto alla vita, forse ancora più rimpianta ora che ha conosciuto l'amore, mentre una figura spettrale lo avvolge: nel culmine dello spettacolo Pagliai riesce suscitare quell'emozione riservata a rari attimi di grande teatro.

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