Palermo, ennesimo flop del teorema Caselli

Palermo - Dopo nove anni di linciaggio mediatico-giudiziario l’assoluzione piena del deputato di Forza Italia, Gaspare Giudice, sancisce l’ennesima sconfitta del «sistema caselliano», cioè di quel «metodo» inquisitorio che secondo il procuratore Pietro Grasso «celebra comunque i processi» a prescindere dalle prove, e che pensa alle inchieste come a una «gogna pubblica». Fino all’altro ieri l’onorevole Gaspare Giudice aveva favorito Cosa nostra reiteratamente. Prove? Nessuna. Eccezion fatta per le vaghe dichiarazioni dei soliti pentiti in batteria. Il gessato mafioso cucito su misura per il parlamentare di Forza Italia non si è mai sgualcito, almeno fino a tre giorni fa allorché un giudice con la minuscola, Angelo Monteleone, dai trascorsi comunisti, non ha esitato a cancellare le accuse di associazione mafiosa contestate al Giudice con la maiuscola. E così il nome del politico che a detta del super pentito Giuffrè sarebbe stato a disposizione di Cosa Nostra (anche se poi il braccio destro di Provenzano ha ammesso di non averlo mai conosciuto) finisce tra i martiri e i santificati: da Giulio Andreotti all’«ammazzasentenze» Corrado Carnevale, dal presidente della provincia di Palermo, Francesco Musotto all’ex senatore di An Filiberto Scalone, a tanti altri, carabinieri compresi del calibro di Canale, Mori, Di Caprio detto «Ultimo». Giudice è uno di questi. Uno che nel giugno del 1998 scopre di essere additato dai soliti collaboranti come un referente dei boss: lo incastrano amicizie pericolose con personaggi che all’epoca delle frequentazioni incriminate ancora non erano pregiudicati. Scopre così di essere indagato per 416 bis in un procedimento relativo ad un fascicolo (numero 1232/96) curiosamente aperto un paio d’anni prima, esattamente un mese dopo la sua elezione al parlamento.
Lo snodo del calvario giudiziario di Giudice è rappresentato dalle dichiarazioni di un pentito dichiarato inattendibile dalla stessa procura di Palermo che lo utilizza per incastrare Giudice. Si chiama Salvatore Barbagallo e di lui si parla in malo modo nell’ordinanza del tribunale della libertà del 12 marzo 1998 nei confronti di un certo Giuseppe Panzeca, etichettato dal pentito come organico a Cosa nostra salvo poi, anni dopo in dibattimento, escluderlo categoricamente: «L’avevo detto io a verbale? Io non lo so se Panzeca è mafioso - risponde Barbagallo al Pm -, forse quella volta lì ho azzardato un po' troppo». Barbagallo azzarda anche quando riferisce del summit in carcere fra Giudice e il boss Vernengo alla presenza di due detenuti (Lorenzo Tinnirello e Carlo Greco) che non erano in galera: libero il primo, latitante il secondo. Azzarda quando racconta le modalità di un omicidio ribaltate comicamente dall’autopsia. È fatto così: azzarda. Paradossalmente se non ci fosse stato un processo tanto lungo - spiega l'avvocato Raffaele Restivo - simile obbrobrio non avrebbe visto la luce. Accusato di riciclare capitali mafiosi per miliardi, l’ex funzionario di banca Giudice alla fine ha dovuto rispondere di miseri 140 milioni di lire. E quanto ai soldi sporchi ripuliti in società nautiche, l’accusa s’è arenata contro lo scoglio del vaglio dibattimentale.

Grazie a Dio s’è trovato un giudice a Berlino: è il presidente della terza sezione che non si è perso un’udienza, che è invecchiato nel processo, e che da oggi è in pensione. Purtroppo.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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