Cultura e Spettacoli

PANFILO GENTILE L’eresia liberale

Torna «Democrazie mafiose», il saggio uscito nel 1969 che suona ancor oggi come esemplare critica ai falsi miti e alle pericolose utopie dei regimi partitocratici

Se siete fra coloro che provano disagio allo spettacolo del teatrino della politica dove il matrimonio gay fa aggio sulla rinnovata volontà dell’Iran di fornirsi dell’arsenale nucleare, dove la scalata a un quotidiano fa aggio sulle proposte per favorire la ripresa economica, dove le seccature tricologiche del presidente del Consiglio fanno aggio sulle riforme istituzionali, se siete fra coloro che restano sgomenti nel seguire - in diretta tv - le sedute della Camera in presenza di appena mezza dozzina di parlamentari (intenti a leggere i giornali o a chiacchierare fra loro), ebbene dovete assolutamente leggere Democrazie mafiose di Panfilo Gentile (Ponte alle Grazie, pagg. 309, euro 16,80): vi troverete il perché e il percome ci siamo ridotti così.
A molti il nome di Panfilo Gentile dirà forse poco, ma non c’è da meravigliarsene. L’intellighenzia di sinistra operò nei suoi confronti una spietata damnatio personae e la sua parte, la parte liberale, non gli perdonò mai (salvo Indro Montanelli, occorre dirlo) quella coerenza che rende inutilizzabile il canotto di salvataggio politico e sociale chiamato elegantemente «dialogo». Nato all'Aquila nel 1889 e morto a Roma nel 1971, professore universitario di filosofia del diritto, avvocato, saggista e giornalista, collaboratore del Mondo, della Stampa, del Corriere della Sera (che lasciò quando ne venne nominato direttore Piero Ottone, tanto per dire), Panfilo Gentile era un liberale vecchio stampo, ovverosia un liberale antidemocratico. Sembrerebbe una bestemmia, anzi una doppia bestemmia. Attributo imprescindibile e buono per tutte le occasioni (la dittatura di Ulbricht si chiamava Repubblica democratica tedesca, repubbliche democratiche socialiste e/o popolari erano e sono tutte le tirannidi del globo), la democrazia è pressoché universalmente intesa come l’unico legittimo e salvifico sistema di governo risultando in quanto tale insindacabile, inoppugnabile e insostituibile. Chi osa criticarne taluni esiti viene spicciamente liquidato come fascista (e infatti alla morte di Panfilo Gentile, l’allora notista del Corriere, Alberto Sensini, che non aveva capito niente, se ne uscì con un: «Peccato fosse diventato fascista... »).
Altro luogo comune è che il professarsi liberale sottintenda essere anche democratico, meglio se «sincero», come se il liberalismo rampollasse dalla democrazia o viceversa. Naturalmente non è così e Gentile, come tutti i grandi liberali, fu come abbiamo detto fondamentalmente antidemocratico, ovvero avverso alla democrazia collettiva o di massa. Per lui l’età dell’oro della democrazia - quando «gli Stati erano governati da una borghesia sobria e dignitosa, il suffragio era ristretto, gli uomini erano allevati nella religione dei padri e la Chiesa “non era in tuta”» - principiò nel 1830 e si chiuse con lo scoppio della grande guerra. Da allora in poi, le democrazie mutarono pelle facendosi «mafiose».
Democrazie mafiose vide la luce nel 1969. Trent’anni dopo l’editore Ponte alle Grazie ne fece una riedizione che oggi, riveduta e ampliata, ripropone. Curata da Gianfranco de Turris, è arricchita da altri saggi («Il marxismo», «Intellettuali di sinistra», «La mondanizzazione della Chiesa», «Il tramonto dei notabili» e «Apologia della reazione»), da un lucido scritto di Sergio Romano e da un’intervista rilasciata nel marzo del ’69 da Gentile a De Turris, il quale è anche autore di un bel ritratto e di una concisa ma esauriente summa delle idee del grande eretico. Tale perché, come sottolinea Gianfranco de Turris, era «totalmente smagato nei confronti delle utopie del mondo moderno e contemporaneo, utopie presto diventate tabù intoccabili: democrazia, popolo, suffragio universale, pace, uguaglianza». Tale perché fra tutte le ideologie quella che gli appare più vecchia e inutilizzabile è proprio quella del progresso («non esistono “venti della storia”. Nessuno sa mai dove ci porta la storia»). Tale perché, in quanto governate da élite demagogiche che assecondano gli umori delle masse per conservare il potere e per spremerne ogni possibile vantaggio, ritenne «mafiose» le democrazie «rappresentate da quei regimi che, nel quadro delle istituzioni democratiche tradizionali riescono ad esercitare il potere e a conservarlo attraverso il sistematico favoritismo di partito. In altre parole né più né meno dei regimi totalitari. La differenza fra i due sistemi è che nei regimi totalitari vi è una tessera unica mentre nelle democrazie mafiose sono consentite più tessere» che tuttavia alla fin fine si riducono solo a una sola: «La tessera del potere».
La bestia nera di Panfilo Gentile non fu solo la partitocrazia: finirono nel suo collimatore le ideologie e l’ideologismo che «impose il sacrificio del presente per un avvenire ipotetico. Alle generazioni viventi si chiese di immolarsi perpetuamente a favore di quelle future. L’individuo non dovette più vivere per sé, né pel suo prossimo, ma per le collettività a venire». Per Gentile, e come dargli torto, le ideologie altro non sono che «idee vecchie diventate popolari. Sono la recezione acritica dei grandi temi morali, sociali, politici proposti in tempi più o meno remoti». Sono lo spaccio «in edizioni popolari dei sottoprodotti scadenti di cose inventate dai nostri trisnonni. Le ideologie, è vero, nobilitano la lotta politica sollevandola al di sopra delle contese personali, delle rivalità tribali, degli odii municipali. Però, facendola gravitare sui grandi problemi astratti, i problemi concreti vengono dimenticati». E ancora: «L’ideologismo porta alla clericalizzazione degli spiriti: non esistono più soluzioni buone o cattive, ma soluzioni conformi o difformi, ortodosse o eretiche. Come la religione, l’ideologismo fa credere che siano sempre in ballo la verità e la giustizia. La lotta diventa manichea: da una parte il bene, dall’altra il male».
Ma il più grave misfatto del quale agli occhi della sinistra si macchiò Panfilo Gentile è la sistematica demolizione dello storicismo che con il suo postulato del progresso fece prevalere «la convinzione che il dopo è sempre meglio di ciò che era prima e che si cammina nel tempo con una marcia continua verso una sempre maggiore felicità e verso una maggiore giustizia. \ Non esiste nessun fato interno e nessun meccanismo esterno che determini necessariamente il corso storico dell’umanità. Tutti i fatti sono condizionati da un complesso di dati naturali, antropologici, etnici, psicologici, culturali che tutti insieme rappresentano le sollecitazioni ambientali, ma esiste sempre una pluralità di repliche possibili e la replica dipende esclusivamente dall’indole profonda del soggetto, dal suo genio \ il che introduce sempre nei fatti umani un elemento di arbitrarietà e di imprevedibilità». Quella che Max Wundt chiamava «eterogenesi dei fini». E che «con parole più semplici Friederich Schiller aveva immaginato che la pietra lanciata dalla mano dell’uomo appartiene al diavolo». Va a finire quasi sempre dove non ce lo aspettavamo.
Panfilo Gentile individuava le origini della decadenza della democrazia nella crisi della borghesia liberale di provincia. Ovvero, come riassume De Turris, nel tramonto dei notabili, la classe che fece l’Italia e la governò dal 1870 al 1919. Ciò a causa del suffragio universale che porta necessariamente alla partitocrazia, a causa della nascita della grande industria, al sorgere delle metropoli e dell’inurbamento, all’avvilimento delle professioni liberali. Un insieme di cose che condusse all’eclissi dei valori liberali, «alla caduta di certe norme e precetti etico-politici sostituiti dal relativismo a tutto campo». La borghesia attuale, constatava amaramente Gentile «si è sradicata dalla provincia per andare a ingrossare la folla anonima e meschina delle città metropolitane». Identica a quella che nel suo I colletti bianchi il sociologo Wright Mills «ha descritto con profondo disgusto»: una «massa amorfa, portatrice di interessi meschini, incapace di larghe visioni, vittima di angusti pregiudizi». In Italia, conclude Gentile, «questa borghesia declassata non si è contentata di restare una massa politicamente inerte. Ha trovato addirittura il modo di affermarsi come classe dirigente» andando a formare, «piccoli borghesi disoccupati, imbevuti di clericalismo ideologico, portati all’intolleranza e allo spirito settario», le oligarchie della democrazia mafiosa. In questo loro arrembaggio accompagnati dall’orchestrina degli intellettuali i quali, «salvo qualche eccezione sono quasi sempre dei ratés, dei dilettanti o degli addetti ai servizi subalterni della cultura. Se fossero dei veri intellettuali non sentirebbero il bisogno di ostentare con tanta insistenza questa qualifica. Nessuno tiene tanto a passare per nobile quanto chi non lo è. Perciò tengono enormemente a passare per intellettuali coloro che né per diritto di natura né per consecutive opere di ingegno possono portare legittimamente questo titolo. Non si autoproclamano in ogni momento intellettuali i professori di università, gli scienziati, i filosofi, i romanzieri di sicura rinomanza. Questo titolo invece è reclamato petulantemente da tutte le mezze calzette letterarie, giornalistiche, cinematografiche, che entrano da portoghesi nel club della cultura».
Come osserva Sergio Romano, Panfilo Gentile aveva una insopprimibile tendenza a smontare i meccanismi delle idee correnti, a sgonfiare i palloncini della retorica politica e a distruggere sistematicamente le idées reçues.

È di uomini di tal fatta che in questi tempi conformisti, sclerotizzati nel pensiero unico, resi ottusi dal monoideismo fanatico, si sente il disperato bisogno.

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