Aggiungi un Ferruccio Parri, togli una Rigoberta Menchú, lascia un inamovibile Alcide De Gasperi, et voilà il gioco del Pantheon veltroniano è fatto. Ogni sei mesi ne scrive uno nuovo, se li unisse tutti potrebbe farci lennesimo libro. Lultimo, Walter Veltroni lo ha costruito sul Corriere della Sera di ieri, che gli ha fatto una paginata di spazio per ospitare i suoi consigli al Paese, mille righe o su di lì per dire no a sante alleanze anti-Berlusconi e sì a un governo tecnico, bastava una dichiarazione, ma lui ha preferito una «lettera agli italiani».
A riga 680 il pericolo pareva scampato. Invece no. Non è riuscito a trattenersi, unaltra volta. Ed eccoli lì, tutti in fila: Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi. Più Agatha Christie, quella dei «Dieci Piccoli indiani», così, tanto per alleggerire un po. New entry Romano Prodi, dopo che per un paio danni ha accuratamente evitato di nominarlo nel fallito tentativo di farlo dimenticare e prenderne il posto.
Cè stato un tempo in cui aveva provato a smettere di praticare larte della citazione a raffica. Era il 20 aprile del 2007 e lui al quarto e ultimo congresso dei Ds, quello propedeutico alla nascita del Pd, ammoniva i compagni: «Lasciamo stare il Pantheon... ognuno di noi ce lha dentro di sé e lo alimenta delle ricchezze di cui ha bisogno». Ma quelli erano anche i tempi in cui diceva di non esser mai stato comunista, cera un partito da affondare e quello nuovo da scalare e certe cose mica le fai con la scala a pioli appoggiata allo scaffale della biblioteca. E comunque già allora lo sapevano tutti, che quella dichiarazione sarebbe stata un po alla «Coscienza di Zeno», lennesima data della mai ultima sigaretta. Infatti Uòlter ha ricominciato subito. Era il 27 giugno 2007 quando, dal palco del Lingotto, è tornato a saccheggiare le librerie e le cronache, riabilitando e ricollocando e mischiando antichi miti e recenti frammenti di classe dirigente. Così ecco il De Gasperi europeista per giustificare la liason con la Dc, il Carlo Azeglio Ciampi del Partito dAzione, persino il Massimo DAlema statista atlantista del Kosovo, senza dimenticare Norberto Bobbio, Piero Gobetti e Primo Levi, e non prima di aver scomodato il Martin Luther King dell«I have a dream» e lOlof Palme del: «Non dobbiamo lottare contro la ricchezza ma contro la povertà». Certo, nulla a confronto della prima vera Walters list, quando, era il 20 dicembre del 2006, in una rimasta epica lezione su «Che cosè la politica» da sindaco di Roma mitragliò il pubblico shakerando Il grande dittatore di Charlie Chaplin, Helmut Kohl, Mikhail Gorbaciov, Sacco e Vanzetti con Gian Maria Volonté, Il candidato con Robert Redford, i discorsi più celebri di Martin Luther King e John F. Kennedy, e poi Vittorio Foa e Giovanni Bachelet, Enrico Berlinguer e Benigno Zaccagnini, Alcide De Gasperi e Bettino Craxi, Barack Obama, Aung San Suu Kyi, Nelson Mandela, Rigoberta Menchú e Gandhi.
Perché a volte scaramantico, sempre sontuoso, il Pantheon è per Veltroni un po coperta di Linus un po scudo di forza. Persino il suo intervento alla Camera per il voto di fiducia al governo Berlusconi il 14 maggio 2008 lo iniziò citando «Piero Calamandrei, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione». Figurarsi adesso che contro quel governo ha deciso di prendere la parola con una lettera agli italiani. Scrivevano di lui Marco Damilano, Mariagrazia Gerina e Fabio Martini nel saggio «Veltroni il piccolo principe», che «costruisce un pantheon di sogni, simboli ed eroi».
Ma ora cè una novità. Ed è che Uòlter si candida a far parte lui stesso del Pantheon di qualcun altro.
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