PARDINI Il guardaboschi delle parole

Negli ultimi tempi si è tornato a parlare molto del tormentato rapporto fra letteratura e impegno. «Per me è una falsa questione - taglia corto Vincenzo Pardini, autore anomalo, appartato e anarchico - perché ormai agli scrittori non viene più dato spazio per intervenire sulla società. Al poeta si preferisce il politologo, e invece di raccontare la vita si racconta la politica».
A proposito di letteratura e impegno. Giorni fa Repubblica ha pubblicato una lunga intervista a Giuseppe Montesano, che Le Monde ha consacrato come il romanziere più polemico d’Italia, in occasione dell’uscita della raccolta di racconti Magic People (Feltrinelli). Lo scrittore napoletano, tra le altre cose, spiegava che ha voluto raccontare «il cambiamento nell’esistenza quotidiana provocato dalla brutalità dell’economia, dall’indulgenza verso i comportamenti illegali». Per puro caso abbiamo letto i racconti di Montesano contemporaneamente a un altro nuovo libro di racconti, quello appunto di Vincenzo Pardini: Tra uomini e lupi (peQuod). Da un punto di vista letterario, così come dell’«impegno», la differenza è la stessa che passa fra un temino e la narrativa d’autore. E lo diciamo non solo perché Tra uomini e lupi (così come il romanzo Lettera a Dio dello scorso anno) è un libro splendido; e non solo perché conosciamo bene Pardini (da un paio d’anni collabora con queste pagine), ma perché i suoi racconti - rispetto al «cambiamento della vita quotidiana», alla «brutalità dell’economia», al «senso profondo della vita» dimenticato dalla nostra epoca sciagurata - hanno una violenza coraggiosa, che non lascia scampo.
A Pardini non piacciono le nostre città e il nostro modo di vivere (e infatti se ne sta a Stabbiano, fuori Lucca, e da trent’anni fa la guardia giurata lavorando di notte e scrivendo di giorno); non ha fiducia nei suoi simili («Presi a parlargli con fiducia. Ne ho più in loro che negli uomini. Per questo non li temo», scrive a proposito di un incontro con cinque pastori maremmani che gli ringhiano contro nel racconto Il toccatore, uno dei più belli della raccolta insieme a quello d’apertura, Due biciclette); allo slang di plastica di tanti suoi colleghi preferisce una lingua arcaica e potente che costruisce le frasi invece che spezzettarle; e perché le sue storie raccontano senza pietà una civiltà che sta crollando: «L’individuo - dice - è abbandonato dalla società, lasciato a se stesso, annichilito. Tutto è cambiato negli ultimi trent’anni. Quand’ero piccolo, venivano da noi i mendicanti che chiedevano a mia madre pane e formaggio. Oggi ci sono gli extracomunitari che ti chiedono soldi per andare al supermercato. La vendetta del consumismo»).
Pardini ha iniziato a scrivere da piccolo, a scuola - «quando notavo alcune cose, volevo farle mie», mentre leggeva Collodi e Fucini, gente della sua terra; poi nel ’75, a venticinque anni, manda un pugno di racconti a Enzo Siciliano per la rivista Nuovi Argomenti. «Gli spedii una busta con dentro anche i francobolli per la risposta, non volevo dare troppo disturbo». La risposta fu la pubblicazione, l’anno successivo, di due racconti. «Mi disse di tenerlo aggiornato, di mandargli le cose che scrivevo. Dopo conobbi Raboni, Garboli, Natalia Ginzburg, Moravia. Intanto continuavo a mandare racconti, finché Siciliano mi disse: ne faremmo un libro. Diede un po’ delle mie cose ad Attilio Bertolucci che nell’81, per i tipi della Pilotta di Parma, fece stampare La volpe bianca».
Poi arriverà Mondadori: nel 1983 esce Il falco d’oro, libro che rivela Pardini - hanno scritto - come «uno dei migliori raccontatori italiani».
Intanto tenta il diploma di maestro elementare: «Mi presentai all’esame da privatista, e passai addirittura la versione di latino a chi aveva fatto tutti e cinque gli anni, ma credo che mi abbia nuociuto l’elenco di letture che presentai alla commissione: Malaparte, Montanelli, Prezzolini. Capita sempre così: da destra ti etichettano di sinistra, e da sinistra ti etichettano di destra...». Perso il diploma, entra prima in un istituto di polizia privata poi, chiusa l’agenzia per mancanza di lavoro e rifiutato un trasferimento a Milano, è assunto in un istituto di vigilanza. Lo stesso di oggi. «Non ci sono molte alternative qui a Lucca, e poi è un lavoro che mi lascia lo spazio per scrivere». Soprattutto libri di racconti. «La verità è che, soprattutto all’inizio, non avevo il tempo materiale per scrivere un romanzo, che richiede un assorbimento totale, anche se in qualche modo alla fine si scrive da solo. Il racconto al contrario è più sbrigativo, ma molto più difficile: in poche pagine devi dare vita a una situazione e devi concluderla, senza eccesso, senza troppi artifici... Il romanzo è una prova di resistenza, il racconto è un prova di forza».
Pardini, infatti, è una forza. Una forza letteraria, anche se qualcuno, scherzando sulla sua predilezione per gli animali, i luoghi selvaggi, la montagna, preferisce definirlo «una forza della natura». «Sì, forse è un po’ riduttivo indicarmi come lo «scrittore degli animali», ma non mi arrabbio perché siamo in una società che vive di formule. Io privilegio natura e animali è vero, ma nei miei libri c’è anche la psicologia umana, ci sono molte persone, molti caratteri. La mia ambizione è raccontare la vita nella sua completezza: natura, animali e persone».
Però poi alla fine Pardini preferisce i suoi cani, i muli, i cervi, al massimo pastori, allevatori e balordi di paese... «Abbiamo perduto il senso del contatto con gli animali: chi lavora in un ufficio tutta la settimana al massimo può giocare con un gatto; e ciò comporta una perdita, manca il dialogo con un’altra parte di noi, che siamo anche animali.

Hai mai notato? “Anima” e “animali” hanno lo stesso etimo». Non solo. Come ha scritto in un suo racconto: «Uomini e lupi sono simili, quando hanno fame. Ma possono esserlo anche per ragioni di confini territoriali, di supremazia uno sull’altro o per invidia».

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