Il partito islamico sarà il ghetto di Milano

Il direttore della moschea di viale Jenner si candida a sindaco della città: è il debutto di un immigrato in politica. Altro che convivenza, così difendono solo la loro enclave

Già nel nome che Abdel Hamid Shaari, direttore del molto chiac­chierato Centro islamico di viale Jenner, ha scelto per la lista con cui si è presentato ieri a candida­to sindaco - «Milano nuova» - c’è qualcosa di inquietante. L’archi­tetto di origine libica, cittadino italiano da molti anni e perciò ti­tolare di tutti i diritti politici, pensa evidentemente a quel 2055 in cui, secondo una attendibile proie­zione basata sugli attuali flussi migratori, nella nostra città gli abitanti di origine stra­niera supereranno gli italiani.

Sembra un giorno ancora lontano, un pro­blema per i nostri nipoti; ma il fatto che Shaari ritenga utile che la minoranza di im­m­igrati abilitati a votare faccia blocco fin da ora ed entri nell’agone politico la dice lunga su quel che potrà succedere se e quando ­come chiedono a gran voce Fini e la sinistra - tutti i 210mila attualmente iscritti all’ana­grafe, più i nuovi che arrivano ogni giorno, potranno partecipare alle elezioni ammini­­strative: lungi dall’integrarsi e dall’entrare a far parte delle strutture politiche esistenti come prevedono le anime belle, lungi dal diventare milanesi a tutti gli effetti, si pro­pongono di diventare una specie di enclave con i propri referenti, che badino principal­mente ai loro interessi.

La discesa in campo di una lista civica che ha come candidato sindaco un musulma­no e cerca di trovare un minimo comune denominatore tra le esigenze delle principa­li comunità straniere presenti costituisce dunque uno spartiacque nella vita politica della città. Anche se nelle liste dei candidati di «Milano nuova» al Consiglio comunale ci sarà qualche italiano (certamente di sini­stra, o magari vicino alla Curia) a fare da fo­glia di fico, l’unico scopo di Shaari è quello di raccogliere abbastanza voti per funziona­re da gruppo di pressione. Nel presentare la sua candidatura, ha precisato che, al primo turno, non intende apparentarsi né con la destra, né con la sinistra, e che deciderà da che parte schierarsi solo per l’eventuale bal­lottaggio. Dal suo punto di vista si tratta di una tattica intelligente, perché solo in que­sto modo potrà far pesare davvero le sue ri­vendicazioni. Ma da che parte stia lo ha fat­to capire chiaramente quando, dopo avere parlato di solidarietà e multiculturalità, ha detto di «volere rilanciare i valori di acco­glienza, legalità e giustizia che sono propri delle tradizioni di Milano ma che da vent’anni sono stati traditi»: dal momento che la città è governata dal centrodestra da 18, non è difficile indovinare chi, secondo il signor Shaari, siano i cattivi. Un’altra assicurazione che lascia perples­si è che «Milano nuova» sarà una lista laica e non islamica e che non intende inserire nel programma la costruzione di una moschea «per non mettere troppa carne al fuoco». Aspirando a riunire sotto le sue bandiere tut­te le comunità straniere, non poteva fare al­trimenti, e tra i suoi candidati figureranno senz’altro uomini e donne delle più varie et­nie. Ma, come più eminente rappresentan­te della comunità islamica, è difficile im­maginare che non privilegi gli interessi e le esigenze dei suoi correligionari, e la scel­ta per la presentazione della candidatura del Teatro Ciak, dove da due anni si cele­bra il Ramadan, è di per sé un indizio elo­quente. Comunque, Shaari non può non sapere quanto sarà arduo mettere d’accor­do filippini e sudamericani cattolici, rome­ni e ucraini ortodossi, marocchini, egizia­ni, senegalesi, eritrei, tunisini e somali mu­sulmani, cingalesi buddisti e albanesi (più o meno) atei, e che perciò dovrà ap­poggiarsi su un «nucleo duro».

Molti milanesi «politicamente corretti» considerano probabilmente la

discesa in campo di Shaari un fatto positivo. Noi non siamo di questo parere; e ne traiamo spun­to per augurarci ancora una volta che non si arrivi a un ballottaggio che gli darebbe subito un grosso potere contrattuale.

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