Il passo d’addio di Nedved: «Ho deciso, smetto di correre»

(...) vero, come diceva uno striscione. Accartocciati, per qualche attimo, perfino quei cori contro la dirigenza. Quel diavolo biondo ieri s’è preso tutta la scena. Non sono bastati i due gol di Iaquinta che hanno steso la Lazio, neppure il secondo posto conquistato dopo aver fatto di tutto per non arrivarci: da Calciopoli ad oggi la Juve ha messo poco a scalare le posizioni.
E la festa è apparsa più bella, più vera, più struggente il ricordo, quando Nedved ha annunciato: «Basta, la smetto con il calcio. Regalo il mio numero ad Amauri, ringrazio Del Piero per avermi concesso la fascia di capitano, sono felice di aver giocato per questi tifosi». Un’idea, una decisione che si meritavano tutti. Il giocatore e fors’anche i tifosi. Nessuno ha tradito, in un senso o nell’altro. I mugugni del giorno prima, «Lascio la Juve, non il calcio», sono stati cancellati dai gesti d’affetto e da un gesto d’intelligenza.
Cos’altro volere? Ieri lo stadio è stato tappezzato da striscioni che si riassumevano in quello steso dalla curva: «Noi tutti ti dobbiamo qualcosa in più di un grazie... Ciao Pavel, sei stato grande». La partita è stata soltanto un inseguire i gesti di Nedved. L’assist-gol per Iaquinta festeggiato come fosse una rete sua. L’ultima punizione, nella quale Del Piero gli ha fatto da ombra e scudiero, ha sfiorato il gran finale. Eppoi applausi, applausi, applausi, il richiamo in panchina a sette minuti dalla fine, uno stadio in piedi, i compagni che lo sommergono di abbracci. Sì, anche gli occhi di un guerriero possono lasciare le tracce della commozione, di un pianto dentro ed uno da reprimere davanti a 25mila persone. È stato umanamente bello vedere uno stadio quasi pieno per quest’ultima partita. È stato umano veder affiorare pelle d’oca sulla faccia di questo diavolo, pareva di vederla anche sulla sua schiena quando sono apparsi sul campo i figli, Ivana e Pavel. Squadra e tecnici si sono schierati con indosso la maglia numero 11, e lo hanno atteso per la sfilata d’onore. Gli hanno donato la maglia firmata da tutti con un numero, 327, che sono le sue partite nella Juve. Troppo per sprecare tutto, dicendo: arrivederci alla prossima sfida, io giocherò da un’altra parte. No, meglio fermarsi qui, alle sue 351 partite nella nostra serie A, ai 73 gol che sono marchio di qualità. Meglio lasciarsi dietro una festa così. Nedved l’ha capito. «Prima di cominciare ero un po’ fuori di testa. Non mi aspettavo una festa così. Ma con oggi ho smesso di correre, adesso penso alla famiglia: mi ha aspettato tanto». Tanto miele, con un pizzico di acido quando Mino Raiola, il suo procuratore, smentisce l’ipotesi di averla chiusa qui. «Ha richieste da almeno 20 squadre: Italia, Inghilterra e America. Non è un addio al calcio». Strano. Deludente, se avesse ragione l’ex pizzaiolo.
E allora i titoli di coda di questa storia juventina sfumano con Cobolli Gigli che dice ai giornalisti: «Avete capito male». Ti pareva. «Nedved è venuto da noi per parlare del suo futuro».

E Blanc che garantisce: «Pavel sa che la Juve è casa sua. Gliel’ho già detto un anno fa. Potrà fare altre cose fuori dal campo». Già, sarebbe curioso sapere cosa ne pensa il prossimo allenatore. Ma per quello bisognerà attendere ancora una settimana.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica