Politica

LA PAURA DEL TERRORE

Si muore perché colpiti, si muore per la paura di essere colpiti. Questo è, nella sua spaventosa essenza, l’effetto terrorismo. È la capacità di alimentare, nella mente e nel cuore di tutti e di ciascuno, in ogni parte del pianeta, la convinzione che l’insidia fatale sia immanente, sia vicina, sia insieme inafferrabile e onnipresente. La convinzione che l’insidia accompagni ormai la nostra vita - e la possibile fine della nostra vita - a Bagdad come a New York, a Londra come a Kabul, a Bali come a Madrid.
Do per scritte e scontate le espressioni di angoscia, di raccapriccio, di umana pietà che una strage come quella di ieri suscita in noi. Di altre, e ben maggiori tragedie fu affollata, nel corso dei secoli, la storia d’ogni popolo. L’Europa è stata devastata da due conflitti mondiali, con milioni di caduti. Ma c’erano amici e nemici, gli obiettivi esposti alla distruzione risultavano abbastanza prevedibili. Ciò che distingue la situazione attuale - so di ripetere concetti risaputi, ma rinfrescarsi la memoria può riuscire utile - sta nella continua attesa, dovunque, d’un irrompere nella nostra esistenza quotidiana del male, dell’odio, del furore sanguinario. L’incubo è il fanatico che assassina civili, donne, bambini perché uccidere è diventata la sua vocazione. L’incubo è il kamikaze della porta accanto, è quell’uno come tanti che d’improvviso si trasforma in massacratore, anche a costo d’immolarsi.
Il timore che la moschea sciita Al Kadhimiya fosse soggetta a un attacco e che vi si aggirassero dei kamikaze ha scatenato il panico, e provocato l’ecatombe. Bagdad è il punto più scoperto, più vulnerabile, più fragile d’una interconnessione mondiale del terrore che tuttavia non conosce confini. A Bagdad lo spargimento di sangue è quotidiano, la minaccia assai più incombente che in altri luoghi: e così è accaduto che una valanga di fuggiaschi abbia lasciato sul terreno - o nelle acque del Tigri - forse mille morti, soprattutto fra i più deboli. Probabilmente questo macello sarà considerato un successo tra i demoniaci strateghi di Al Qaida. Il terrore ha funzionato, ed è questo che a loro preme.
Mentre chiniamo il capo davanti alle povere vittime dell’ennesimo episodio di quella che è stata definita una guerra asimmetrica - ma il termine guerra a me personalmente sembra troppo solenne, troppo storicamente nobile, troppo generico, preferisco parlare di bieco terrorismo - dobbiamo cercare almeno di trarre dalla tragedia di Bagdad un insegnamento. Lo scopo del terrorismo è il terrore: il che include una condizione perenne di insicurezza, la sfiducia nei mezzi con cui al terrorismo vogliamo opporci. Nei momenti di emergenza include anche il panico, il disordine e la carneficina che dal panico e dal disordine deriva. I sermoni servono poco, me ne rendo conto, per evitare comportamenti individuali e di massa che sono istintivi, comprensibili, spesso inevitabili.
È un luogo comune e in apparenza sciocco quello secondo cui la migliore arma contro il terrore è non avere terrore. Eppure al fondo di questa banalità c’è un po’ di verità. Tra tanti motivi di preoccupazione e anche di delusione per ciò che accade in Irak, rimangono, a conforto, il ricordo e le immagini dei milioni di cittadini che vollero votare. Non ebbero terrore del terrore.

Quei vivi meritano d’essere onorati insieme ai morti.

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