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Il Pd è già rotto, ecco chi raccoglierà i cocci

Comunque vada la sfida per la leadership, il partito è pronto alla scissione. Le truppe in campo stanno studiando le mosse in caso di sconfitta. I fan di Franceschini guardano a Casini, quelli di Bersani aprono a Vendola. E Di Pietro corteggia tutti

Il Pd è già rotto, ecco chi raccoglierà i cocci

Resisterà il Pd alla scossa invernale? Due leadership deboli si confrontano con modelli di partito alternativi mentre si torna a parlare di scissioni, al plurale, e Casini ma soprattutto Di Pietro aspettano di ereditare frange dei democrats. Le voci di dentro parlano dei progetti dei vincitori ma soprattutto delle mosse dei perdenti. Apparentemente la macchina del congresso si è messa in moto senza sorprese ma sta già rivelando profonde spaccature. Bersani ha messo assieme tutti i Ds, tranne Fassino, ed esibisce come trofei trasversali Rosy Bindi, Enrico Letta e Marco Follini. Franceschini ha fondato una riedizione del Correntone con gli ex popolari di Fioroni e Marini, i veltroniani e i rutelliani. Il terzo candidato, Ignazio Marino sulla carta sarà il perdente di successo ma può contare sulla componente «laica» e sui «quarantenni».

Lo scontro, in pochi giorni, è già diventato incandescente. Il segretario uscente, con una certa sfrontataggine, si presenta come il nuovo contro il vecchio. Bersani, invece, fa appello ai nostalgici del partito degli iscritti e pensa a un modello organizzativo simile ad una bocciofila. Di Marino si sa poco, ma poco si deve sapere visto che il terzo uomo conta di raccogliere suffragi fra gli scontenti dell’una e dell'altra parte. Ad accendere le polveri ci ha pensato Massimo D’Alema che, sparando ad alzo zero contro la segreteria Franceschini, sogna un partito che metta la parola fine al nuovismo e soprattutto al veltronismo. Dopo l’intervento dell'ex premier molti nel Pd pensano che il congresso non deciderà solo il vincitore ma stabilirà anche quanti partiti nasceranno al termine dell’assise. Ecco perché si torna a parlare di scissione.

L’area di sofferenza nel Pd è molto estesa. Gli scenari sono inquietanti. Il primo scenario prevede una larga vittoria di Bersani. L’ex ministro può godere dell’appoggio di molte organizzazioni periferiche e anche le deboli federazioni del Nord possono preferire lui a un Franceschini che sembra appesantito dalla burocrazia politica romana. Una vittoria larga di Bersani creerebbe un problema molto serio ad almeno tre componenti del Pd. In primo luogo ai veltroniani. È difficile immaginare che questa area che ha fatto del nuovismo e del partito leggero la propria bandiera possa accettare quello che reputerà un vero balzo all’indietro. L’idiosincrasia fra dalemiani e veltroniani, che accompagna e sopravanza quella fra i due leader, rende per molti veltroniani inverosimile una convivenza nello stesso partito diretto da Bersani. Malgrado il silenzio di Prodi c’è, inoltre, una buona parte della componente legata all’ex capo dell’Ulivo che si sentirebbe a disagio in un partito in cui D’Alema fosse il dominus. Stesso atteggiamento lo avrebbero i rutelliani che temono che un Pd versione Bersani diventi una specie di socialdemocrazia camuffata.
Il secondo scenario, in verità al momento improbabile, è quello di una vittoria congressuale di Franceschini. Sarebbero in questo caso i dalemiani a non accettare la convivenza con una leadership movimentista che li spingerebbe a valutare l’ipotesi di una nuova alleanza con la sinistra dispersa di Nencini e Vendola per dar vita a un partito più schiettamente di sinistra.

Il terzo scenario prevede il pareggio fra Franceschini e Bersani. Un pareggio al congresso, cioè nel caso in cui i due candidati raggiungessero pressoché la stessa percentuale di voti degli iscritti, o un pareggio nell’ipotesi di un congresso vinto da Bersani e di primarie vinte da Franceschini. In questo caso il Pd vivrebbe una situazione di blocco strutturale con le due parti costrette a trattare una convivenza difficile in attesa di una nuova resa dei conti.
L’anno e mezzo terribile che il Pd ha alle spalle potrebbe rivelarsi una passeggiata rispetto a ciò che aspetta in autunno il maggior partito del centrosinistra. Fuori dal Pd già vengono predisposti i campi di atterraggio per raccogliere gli sconfitti. Da un lato c’è Casini con il suo partito della Nazione che spera di convincere i centristi del Pd che il campo di battaglia è ormai impraticabile.

Dall’altro lato c’è Di Pietro. Dopo il brillante risultato elettorale Di Pietro ha limitato i suoi attacchi al Pd. È intervenuto per replicare alle critiche sulla sua uscita anti-Napolitano e ha sollecitato una chiara scelta nelle alleanze. Nulla di più. Un silenzio singolare considerato l’interventismo dei mesi precedenti quando l’ex pm non perdeva giorno senza incalzare un Pd allo sbando accusato di essere incapace di fare opposizione.

La discrezione di Di Pietro non è una manifestazione tardiva di fair play ma il primo segnale di una nuova strategia. Di Pietro pensa che in caso di frattura grave al congresso del Pd il suo partito potrà ereditare una parte di militanti e parlamentari «democratici». Non a caso dopo aver lanciato, subito dopo il voto, l’idea di rifondare la propria organizzazione rinunciando al nome nel simbolo ha rinviato questo adempimento.

Probabilmente sta aspettando di offrire questo «regalo» a quei veltroniani e prodiani che all'indomani della vittoria di Bersani si accingessero a lasciare il partito. La «scossa autunnale» ridisegnerebbe il profilo del centrosinistra con un Pd più debole e quasi interamente e tardivamente socialdemocratizzato e una formazione movimentista e giustizialista che potrebbe contare sull’appoggio del nuovo quotidiano di Antonio Padellaro e Marco Travaglio.

Il sogno del grande Pd finirebbe in cantina mentre l’anima giustizialista si rivelerebbe a quel punto in grado di imporre le sue scelte a tutta la sinistra. E pensavamo di aver raschiato il fondo del barile!

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