Lampedusa - «A Lampedusa non si può nascere e non si può morire». Pino e Nunzia Licciardi, da sempre i più appassionati difensori di Lampedusa e dei diritti dei lampedusani, sono icastici e ripetono la stessa frase, che è quasi il loro manifesto da quindici anni. E sembrerebbe un’esagerazione, uno slogan ad effetto, un eccesso d’amore per la propria isola.
Non è un’esagerazione. È una fotografia. Perché, ormai, a causa della mancanza di un vero reparto di ostetricia nel poliambulatorio dell’isola, i bimbi di Lampedusa e di Linosa nascono a Palermo o a Trapani e - anagraficamente - non c’è più un bimbo lampedusano che possa scrivere sulla carta di identità «nato a Lampedusa».
Ma c’è un problema ancora più grave. Ed è la seconda parte della frase. A Lampedusa non si può morire per colpa di una sanità che (in modo sacrosanto, per carità, l’umanità davanti a tutto) ogni giorno fa passi da gigante per quanto riguarda le cure dei clandestini alloggiati nel centro di accoglienza dell’isola, ma resta immobile quando si tratta della salute dei lampedusani. A Lampedusa non si può morire perché - con i turni settimanali degli specialisti nel poliambulatorio - se non ti ammali nel giorno giusto, sei inevitabilmente destinato ad essere curato a Palermo, almeno nei casi più gravi.
Il problema è quello che si intende per «casi più gravi». Perché a Lampedusa anche una frattura a un braccio è catalogata come tale e per il gesso si viene portati in elicottero a Palermo. E per malattie non certo rare - come quelle che richiedono la dialisi - si rischia la vita.
Non è un’esagerazione. È una fotografia, anche in questo caso. Una fotografia su una lapide: Damiano Colapinto per 32 anni è stato costretto a vivere a Palermo per poter fare la dialisi. Avrebbe voluto tornare un giorno nella sua Lampedusa, almeno per morire. Non ce l’ha fatta.
Così come non ce la fanno, non ce la fanno più, gli ammalati di insufficienza renale di Lampedusa e Linosa che chiedono solo di curarsi come tutti gli altri cittadini d’Italia. Si badi bene: non stiamo parlando di una patologia rara, di qualcosa di cui soffre un italiano su un milione o della difesa antistorica e antieconomica di piccoli ospedali di quartiere che non servono più a niente e a nessuno. Qui siamo all’abc del diritto alla salute. Articolo 32 della Costituzione, primo comma: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
«Meglio clandestini che lampedusani» spiega Pietro Cucina, piccolo imprenditore edile dell’isola, che quell’odissea la sta vivendo da anni sulla propria pelle. E che, per star vicino a sua moglie malata, ha lasciato la casa, la famiglia e il lavoro. «Meglio clandestini che lampedusani, perché Lampedusa è morta» e, anche stavolta, non è solo un perfetto slogan. È quasi la drammatica fotografia degli ultimi anni vissuti da Cucina che già ha nella mente il ricordo di suo padre morto per la mancanza di una sanità adeguata a Lampedusa, colto da ictus e rimasto per sette ore ad aspettare l’aereo-medico che avrebbe potuto salvarlo. La nuova odissea è ugualmente drammatica: «Nel 2002 a mia moglie è stata diagnosticata un’insufficienza renale e, per evitare di farla entrare in dialisi, abbiamo iniziato una serie di cure sul continente: due volte al mese facevamo armi e bagagli, salivamo sul traghetto - che quando non c’è mare ci mette otto o nove ore -, sbarcavamo a Porto Empedocle e poi andavamo in macchina fino a Sciacca. Lampedusa-Sciacca e Sciacca-Lampedusa, ogni due settimane, senza possibilità di sgarrare di un giorno». Le cure sono andate bene, fino al 2007, quando la dialisi è stata inevitabile per la signora Cucina. «E qui abbiamo dovuto scappare da Lampedusa, lasciando casa, lavoro, affetti, per non lasciarci la pelle. Ora viviamo ad Agrigento, dove mia moglie fa la dialisi tre volte la settimana per quattro ore al giorno». Il costo? «Le cure le passa il servizio sanitario nazionale, ma ovviamente i costi per i viaggi e per la casa sono a carico nostro».
Soprattutto, i dializzati lampedusani e linosani (otto che attualmente si curano in Sicilia, più altre decine sparsi in tutta l’Italia dotata di apparecchiature per l’insufficienza renale, concentrati soprattutto fra Rimini, la Lombardia e la Liguria) non chiedono nulla di più di pochi cavetti e di due mura. Il necessario per evitare odissee quotidiane come quelle di Gaetano Consiglio: «Faccio avanti e indietro da Palermo un giorno sì e uno no». Non siamo nemmeno più nel campo della discussione sulle grandi strategie di politica sanitaria, siamo ai cavilli e alle piccole vicende burocratiche.
Perché, stavolta, pare che una soluzione sia davvero vicina. Nonostante qualche conflitto di competenze fra la Asl di Palermo, da cui formalmente dipende il Comune di Lampedusa e Linosa, e quella di Agrigento, che dovrebbe seguire la questione dialisi. Insomma, vi risparmio tutta la parte amministrativa, ma la soluzione è a un passo: perché una società privata convenzionata con il servizio sanitario della Regione Sicilia è pronta a montare le attrezzature, i locali del centro per anziani (una di quelle opere pubbliche infinite che sono la specialità dell’isola, insieme ai dolcetti di mandorla) sono praticamente pronti e insomma tutti i tasselli sembrerebbero andare al posto giusto.
Sembrerebbero. Perché - nonostante le premesse - ancora la dialisi non è realtà. Ancora tutti i piccoli cavetti che separano la burocrazia dalla civiltà sanitaria non sono montati. E ancora tanti lampedusani non possono vivere, lavorare, curarsi a casa loro.
Nonostante, paradossalamente, sull’isola ci sia una straordinaria densità di medici e quando arrivano in porto le carrette del mare scortate dalla Guardia Costiera, gli uomini con le pettorine delle varie associazioni di volontariato facciano a gara per prendersi cura dei clandestini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.