Cronache

Il fallimento degli ecologisti

I guru dell'ambiente hanno scoperto che opporsi sempre non paga. E i numeri parlano chiaro. Da Obama a Beppe Grillo: affidarsi a figure messianiche è stata sempre una delusione

Il fallimento degli ecologisti

È giunta l’ora dell’esame di coscienza anche per gli ambientalisti, i no-global, i nemici dello sviluppo. Movimenti che da vent’anni, in tutto il mondo, agitano lo spettro dell’apocalisse climatica e criminalizzano le multinazionali. Organizzazioni che scendono in piazza non appena si accenna a costruire una ferrovia, una tangenziale, uno smaltitore di rifiuti, un capannone industriale. Gruppi che si oppongono anche con la violenza a infrastrutture, rigassificatori, reti di antenne, impianti che sfruttino risorse naturali che non siano «green». Soprattutto si battono ora il petto i leader di queste contestazioni, i «maestri del pensiero» unico verde, gli intellettuali che hanno dato una struttura ideologica agli innumerevoli «popoli del no». Costoro hanno scoperto che opporsi «a prescindere», come direbbe Totò, non funziona. Lo dicono le guide del movimento, lo confermano le statistiche sulle opere contestate, lo sanciscono gli elettori che hanno cancellato dai Parlamenti di mezza Europa le insegne ecologiste.

Per alcuni guru ambientalisti il pentimento è semplicemente una questione di comunicazione. La gente li abbandona soltanto perché si sono espressi male. Insomma, basterebbe cambiare portavoce e società di pubbliche relazioni per riguadagnare la fiducia di chi trema al pensiero del surriscaldamento terrestre o combatte l'inceneritore sotto casa. Il capofila di questi ecologisti contriti è Steve Cohen, direttore esecutivo dell'Earth Institute della Columbia University di New York, il maggiore centro studi internazionale dedicato ai temi ambientali. L'anno scorso in occasione della Giornata mondiale della Terra egli fece un «mea culpa» pubblico. «Abbiamo sbagliato – confessò a Repubblica -. La lotta al cambiamento climatico non fa progressi, l'opinione pubblica sembra confusa o stanca di questi allarmi, i governi perdono tempo. La colpa è anche nostra».

Già, ma dove hanno sbagliato quelli che il filosofo francese Pascal Bruckner ha definito in un libro fortunato i «fanatici dell'apocalisse»? Cohen se la cava con poco. L'errore è stato nel modo di comunicare «alla Al Gore»: da una parte «una profezia dell'apocalisse», dall'altra «una serie di conseguenze sgradevoli in termini di comportamenti virtuosi da adottare. Una strategia di comunicazione che puntava a impaurire l'opinione pubblica ed estorcerle sacrifici non ha funzionato». Si è parlato troppo di rischio tsunami, piogge acide, scioglimento dei ghiacciai, siccità e alluvioni. «La comunità scientifica e gli ambientalisti hanno sbagliato strategia, abbiamo usato messaggi controproducenti. Tutta la comunicazione su questi temi va ripensata in una chiave positiva».

Il catastrofismo non paga. Non è l'unica colpa del movimento ecologista. L'ha ammesso di recente Naomi Klein, altra guru no-global, autrice del famosissimo pamphlet «No logo». Al Corriere della Sera l'ha detto chiaro: «Abbiamo perso. L'ambientalismo come moda ha fallito; per quanto importanti, i cambiamenti individuali da soli non bastano». La Klein individua due errori: «Il primo è stato quello di fidarsi di figure messianiche, affidare a loro il cambiamento. È successo con Obama, ad esempio». O con Al Gore, che nel 2007 vinse il Nobel per i suoi allarmi apocalittici. E in Italia avviene con Beppe Grillo.

Ma la cantonata più grossa è un'altra: «Avere detto molti “no” senza avere dei “sì” altrettanto convincenti. Alle persone non piace l'ingiustizia, la disuguaglianza, il riscaldamento globale: ma hanno paura dell'alternativa, se non è elaborata con cura. Non si può rimanere per sempre in una posizione di opposizione». Un antagonismo fatto unicamente di attività demolitorie, incapace di costruire alcunché.

Gli errori nella comunicazione, la mancanza di proposte positive, il consegnarsi mani e piedi a uomini-immagine: questi sono i peccati confessati dagli intellettuali della galassia ambientalista e no-global per spiegare il loro fallimento. In realtà, all'esame di coscienza vanno aggiunti altri capi d'accusa. Il più clamoroso è la giustificazione della violenza, tollerata nei fatti e addirittura legittimata in certi casi. Naomi Klein, per esempio, non si rimangia certo l'appoggio alle brutalità dell'esercito zapatista del Chiapas messicano: erano attaccati, «quella violenza era pienamente giustificabile e il mio sostegno agli zapatisti è incrollabile».

Ma oltre che dalle coperture date a guerriglieri e black-bloc, i movimentisti sono stati sconfitti dalla realtà. I dati sul surriscaldamento terrestre non sono univoci. Una serie di indicatori (per esempio quelli rilevati dall'Hadley Centre dell'ufficio meteorologico britannico o dal Climatic Research Unit dell'università dell'East Anglia) mostrano che l'aumento delle temperature si è fermato da una quindicina d'anni. Un risultato che contrasta con le tesi dell'Ipcc, l'organismo dell'Onu che studia i cambiamenti climatici e – sulla spinta di potenti lobby che ora perdono colpi – da decenni addossa ogni colpa alle emissioni di anidride carbonica provocate dall'attività umana.

Altro aspetto colpevolmente ignorato dai professionisti dell'apocalisse, cosa che ne ha minato la credibilità, è che le multinazionali non sono quei mostri divora-ambiente dipinti per anni. Le grandi corporation sono da tempo in prima fila nell'adozione di politiche verdi. I massicci investimenti delle multinazionali in macchinari e tecnologie eco-sostenibili fa bene all'ambiente, ai consumi e ai bilanci, perché il risparmio di energia e il taglio dei costi si traducono in una maggiore efficienza produttiva.

Il sistema capitalistico non solo non è nemico dell'ambiente, ma ormai ha assorbito le istanze dei movimenti. L'eco-business funziona, frutta risparmi e migliora l'immagine delle multinazionali messe nel mirino dei nemici del progresso. Oggi società che erano oggetto di boicottaggio commerciale, come Nestlé o Coca-Cola, sono all'avanguardia nello sviluppo di tecnologie eco-compatibili, per risparmiare acqua, abbattere le emissioni, riciclare i materiali. Non lo fanno per motivi ideali, come vorrebbero i radical-chic delle élite ambientaliste, ma perché ne traggono un vantaggio economico. È sbagliato? Il vituperato Occidente liberal-capitalista è in grado di rispondere alle esigenze dell'ambiente, ma coloro che si sono autonominati depositari del verbo ecologista non lo accettano. Anche chiudere gli occhi davanti alla realtà è un errore che costa caro.

La sconfitta dell'eco-fanatismo traspare da circostanze molto banali. Emerge per esempio dalle urne elettorali: nel 2013 sono stati cancellati dal Parlamento italiano i partiti verdi, dal movimento di Alfonso Pecoraro Scanio e Angelo Bonelli fino a personalità come Grazia Francescato e Monica Frassoni che si erano candidate con i vendoliani di Sinistra ecologia e libertà. Ancora più significativi sono i dati del Nimby Forum italiano. Nimby è l'acronimo dell'inglese «Not in my backyard», non nel mio cortile: è la contestazione di opere di pubblica utilità o insediamenti industriali ritenuti (spesso a torto) dannosi per l'ambiente come inceneritori, rigassificatori, impianti di produzione di energia, infrastrutture stradali o ferroviarie.

Nel 2013, per la prima volta in dieci anni, il numero degli impianti contestati è diminuito: le 354 proteste censite l'anno prima sono scese a 336. Un ridimensionamento del 5 per cento. Calate anche le nuove segnalazioni: nel 2012 erano comparsi 152 casi, nel 2013 appena 108. Meno 30 per cento. In questo caso, come rileva Alessandro Beulcke, presidente di Aris (l'ente non profit che promuove il Nimby Forum), incide anche il calo degli investimenti nelle opere pubbliche.

Tuttavia un elemento sorprendente balza agli occhi. I manifestanti se la prendono sempre di più con impianti «verdi»: per esempio, viene contestato l'87 per cento dei nuovi impianti di energia rinnovabile, il simbolo della «green economy». Vuol dire che le proteste non intendono difendere l'ambiente ma semplicemente il proprio orticello. A parole si sostengono le tecnologie verdi, in pratica i territori non ne vogliono sapere.

È un altro indicatore della sconfitta degli ambientalisti «a prescindere», forse il più significativo.

Commenti