Quando Silvio Berlusconi, prima del suo arrivo in Israele, ha dichiarato testualmente al giornale Haaretz: «Ho cambiato la politica estera dell'Italia e trasformato il mio Paese nel migliore amico di Israele in Europa» ha detto la pura verità. La sua trionfale visita nello Stato ebraico è in effetti solo la conclusione di un lungo percorso iniziato con la discesa in campo del 1994 e con la formazione del suo primo governo, che l'allora ministro degli Esteri Martino definì «il più vicino a Israele che il nostro Paese abbia mai avuto». Si trattò di una svolta radicale, perché fino a quel momento Roma, pur cercando di mantenere un certo equilibrio che le evitasse le ire dell'America, aveva quasi sempre perseguito una politica filoaraba. Fummo tra i primi ad accogliere con tutti gli onori Yasser Arafat, ad ospitare (a un certo punto, addirittura a nostre spese) una rappresentanza ufficiale dell'Olp e mostrammo più volte inquietanti indulgenze nei confronti del terrorismo palestinese, mentre non si risparmiavano le critiche allo Stato ebraico. Per ragioni diverse ma concomitanti, grandi amici degli arabi furono sia Bettino Craxi sia Giulio Andreotti, che hanno dominato la nostra politica estera negli anni Ottanta, e implacabile avversario di Israele era, dall'opposizione, il vecchio Pci.
Che, nella primavera del '94, la musica sarebbe cambiata si accorse subito Nemer Hammad, lo storico «ambasciatore dell'Olp» a Roma (e che ieri, come portavoce di Abu Mazen, ha criticato Berlusconi), il quale diramò addirittura una nota di protesta per la nomina del sottoscritto, considerato troppo vicino ad Israele per la sua storia di giornalista, a Sottosegretario agli Affari Esteri. Il Berlusconi I, infatti, si battè in sede europea contro la sospensione dell'embargo di armi alla Siria e per la firma di un accordo di collaborazione con Israele nella ricerca scientifica, e fece subito capire dove stavano le sue simpatie. Ma soltanto con il Berlusconi II (2001-2006) furono prese definitivamente le distanze da certe posizioni del passato, e nell'ambito di una Ue sempre divisa sulla politica mediorientale l'Italia, per così dire, cambiò campo. Fu infatti proprio su iniziativa della nostra presidenza che Hamas fu inserito (e vi è tuttora), nell'elenco Ue delle organizzazioni terroristiche, con tutte le conseguenze del caso; e, durante l'intero quinquennio, Silvio Berlusconi si è mosso, nella sostanza, in sintonia con George Bush, considerato non a torto il presidente americano più solidale con lo Stato ebraico. Già in quel periodo, espresse a più riprese l'auspicio che un giorno Israele potesse entrare a far parte dell'Unione Europea, per metterla al riparo da futuri attacchi dei suoi nemici. È doveroso aggiungere che a questa evoluzione ha dato un contributo importante Gianfranco Fini, prima con la sua «conversione» che ne ha fatto un beniamino di Israele, e poi con la sua azione da ministro degli Esteri.
Le inequivocabili e coraggiose prese di posizione di questi giorni, compresa la giustificazione dell'attacco militare a Gaza e la ferma denuncia della politica iraniana, sono dunque il frutto di idee e sentimenti maturati nel corso degli anni e coltivati anche nel periodo trascorso all'opposizione, specie quando D'Alema ha tentato in varie occasioni di riportare l'orologio alla prima Repubblica. Se Israele gli ha riservato l'accoglienza più calorosa mai ricevuta da un leader europeo, non è certo per opportunismo, ma perché sa riconoscere i suoi (pochi) veri amici.
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