Il pesce d'acqua dolce? Per gli chef non è più il brutto anatroccolo

Non ha più complessi d'inferiorità come dimostrano i piatti di cui è protagonista: geniali nella loro (apparente) semplicità, belli da vedere e ottimi

Quello del pesce d'acqua dolce è un mondo particolare, ancora in parte da scoprire, per i gourmet ma anche per gli chef. E ricco di sorprese: pensando alla geografia italica, sarebbe facile ritenere che lontano dai laghi, soprattutto del Nord, sia impossibile districarsi tra lucci, persici e lavarelli. Errore, il locale più quotato dalle guide - a partire dalla Michelin che gli assegna due stelle - è La Trota si trova a Rivodutri, cittadina in provincia di Rieti. Va detto che il pesce d'acqua dolce ha sempre sofferto (e in parte lo soffre ancora) un complesso di inferiorità verso quello di mare. Ragioni note, in parte indiscutibili, a partire dal fatto che solo poche regioni hanno bacini naturali e fiumi come «dispensa». E anche in queste zone, la disponibilità di pescato non è ampia e costante se confrontata a quanto regala il mare, italiano e d'importazione. Se uniamo i (troppi) luoghi comuni sul tema e la difficoltà di lavorazione del prodotto, più delicato di quello marino, ecco che il quadro è completo. Ma i tempi iniziano a mutare, grazie a molti chef affermati e a quelli giovani con voglia di studiare l'argomento, magari con un solo piatto o due in carta ma di grande effetto. Basta vedere i dieci piatti che abbiamo scelto, uno per ristorante: geniali nella loro (apparente semplicità), belli da vedere e ottimi. Il termometro del momento come sempre lo offre Milano: sapere che in una delle osterie trendy - il Ratanà, a due passi da Porta Nuova - Cesare Battisti ha sempre in carta un paio di piatti a base di salmerino, persico o agone conferma la svolta. Come lo sbarco di Vittorio Fusari e Stefano Cerveni, illustri figli di Franciacorta, ha portato in due locali importanti - quali il Pont de Fer e l'Osteria sul tetto della Triennale - piatti quali il coregone pane e sale del primo e il tortino di tinca e ripieno, crema di polenta di Storo del secondo. Il tempio, naturalmente, resta il Garda, dove sulle tre rive si assiste a una rinascita della cucina locale, favorita dal ritorno a buone pesche. Da un paio di anni si sono riviste le trote autotocne, non quelle allevate in Trentino. Manca all'appello solo Sua Maestà il Carpione, un gioiello, che i buongustai della Serenissima ricercavano per i loro banchetti, portandolo persino dal lago a San Marco. Tanto che molti storici della cucina sostengono che la nascita della tecnica del «pesce in carpione» - tuttora diffusa sui bacini lombardi - sia nata proprio allora per conservare la freschezza della preda. La carne, considerata il massimo dai gourmet, è talmente delicata che si esalta nella bollitura per dieci minuti: un filo di extravergine, possibilmente gardesano, e si mangia. Ma anche crudo, regala emozioni. Calata progressivamente la pesca sino a farlo diventare raro e costosissimo (anche 70 euro al kg), al carpione è rimasta la sola strada di puntare alla riproduzione artificiale, lanciata dal Presidio Slow Food e coinvolgendo enti e università locali.

Ce la faranno? Noi facciamo un gran tifo.

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