Roma

Philippe Leroy, un ragazzino che ha 75 anni

Laura Novelli

Recita da oltre quarant’anni e sa ancora buttarsi in avventure professionali un po’ folli. Forse perché la sua stessa vita è stata in molti casi imprevedibile e avventurosa (ha trascorsi da tenente nell’esercito francese e da militante politico). E perché nella sua lunga ed eterogenea carriera (gran parte della quale legata al nostro Paese) ha spaziato con disinvoltura dal cinema al piccolo schermo e al teatro senza mai rischiare di ripetere cose già fatte o di cadere in riduttivi cliché. Philippe Leroy ha compiuto settantacinque anni (è nato a Parigi nell’ottobre del 1930) ma sembra possedere ancora l’energia di un ragazzo aperto alle esperienze più diverse. Tanto da tornare adesso sulle nostre scene con un lavoro intitolato «The Looking-Glass» (alla Sala Orfeo dell’Orologio fino al 5 marzo) di cui è coproduttore e principale interprete nei panni di un navigato attore alle prese con la formazione di due allievi (Sylvia De Fanti e Riccardo Floris, cui si aggiunge il tecnico affidato a Enzo Bentivegna) e con gli inevitabili meccanismi di immedesimazione che scattano tra maestro e discenti.
Il testo, scritto da Leonardo Petrillo (anche regista) ha vinto il premio Flaiano nel 2003 e si struttura come una vera e propria sfida generazionale e artistica che tira in ballo temi quali la dicotomia scena/realtà, l’illusione teatrale, la dedizione assoluta al palcoscenico e i suoi deleteri risvolti sulla vita privata, la solitudine esistenziale dell’artista.
«Ho sempre fatto l’attore col cuore - dichiara Leroy - e mai per apparire. Il mio modello è la naturalezza della recitazione di Salvo Randone e non certo l’eccesso e le esagerazioni di Vittorio Gassman». Il celebre Yanez di «Sandokan» si ritiene infatti «egocentrico, solitario e indipendente». Il tipo giusto, insomma, per restituire qui la fisionomia di un grande attore che - mentre è intento a provare «Amleto», «Riccardo III» e «Re Lear» - entra in aperto conflitto con colleghi più giovani e più inesperti e tenta di oscurane le illusioni. «Le mie idee personali - prosegue - sono simili a quelle espresse dal personaggio; ecco perché considero questo spettacolo un po’ il mio testamento e sto pensando, terminate le repliche, di ritirarmi e chiudere definitivamente con questo mestiere». Dietro una decisione del genere si legge ovviamente anche una buona dose di amarezza per i tempi correnti: «Nel cinema - prosegue l’attore - non vi sono più grandi maestri con cui lavorare. E le fiction proprio non mi vanno più giù, anche se, per amicizia verso Cinzia Torrini, sono apparso, divertendomi, in Elisa di Rivombrosa». E c’è da davvero credergli, visto che oltre a fare l’attore Leroy si dedica da sempre ad altre attività (per esempio è un impavido paracadutista e un apprezzato scultore) e visto che l’idea di intraprendere la carriera artistica è nata in lui in modo del tutto casuale: «Quando arrivai in Italia (vi giunse esule nel 1962 dopo una serie di forti contrasti con il governo francese, ndr) non mi passava proprio per la testa di fare l’attore: fino ad allora avevo visto non più di due film in vita mia e avevo recitato una sola volta in una compagnia amatoriale in Francia. È lì che mi aveva visto e conosciuto Vittorio Caprioli, il quale, reincontrato a Roma, mi coinvolse nella lavorazione del suo primo film Leoni al sole. Ma la svolta vera arrivò nel 1972 con il Leonardo di Castellani e poi con Sandokan.

Recitare si rivelò per me assolutamente naturale».

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