Più posti di lavoro negli Usa Borse e petrolio in rialzo

Come spesso accade, anche gli ultimi dati sullo stato di salute del mercato del lavoro Usa mostrano un quadro contrastante e di non facile lettura. A giudicare dai 244mila nuovi posti di lavoro creati in aprile (il massimo da maggio 2010), contro i 185mila stimati dagli analisti, e dalla lieve revisione al rialzo dei dati di marzo (221mila unità), si direbbe che la macchina delle assunzioni si è rimessa in moto. Il tasso di disoccupazione, calcolato sulla base di altri parametri, indica però un aumento al 9%, il primo dallo scorso novembre, non necessariamente negativo se si considera che la crescita potrebbe essere causata da un calo dei cosiddetti «invisibili», cioè di coloro che, sfiduciati e dunque non più alla ricerca di un impiego, non vengono rilevati dagli uffici del dipartimento al Commercio.
Le Borse hanno infatti accolto positivamente gli ultimi dati, con rialzi attorno o superiori all’1% in Europa (Milano ha chiuso a +0,98%), anche se a un’ora dalla chiusura Wall Street guadagnava solo lo 0,20%. Cauto il cauto commento della Casa Bianca. «La crescita degli ultimi mesi è incoraggiante - ha spiegato Austan Goolsbee, il consigliere economico del presidente Obama -, ma un incremento più rapido è necessario per recuperare i posti persi durante la crisi». A preoccupare, del resto, è ancora l’alto numero di gente a spasso da più di sei mesi, un esercito di disoccupati «cronici» composto da quasi sei milioni di persone, vale a dire il 43,4% rispetto al totale degli americani disoccupati. Non particolarmente esuberante, inoltre, il tasso di partecipazione al mercato del lavoro, rimasto inchiodato al 64,2%. E poi, così come in Europa, inquieta l’alto numero di giovani under 25, uno su quattro, ancora senza un lavoro.
In un Paese come gli Usa, alle prese con un debito monstre destinato a superare il prossimo 16 maggio i 14.300 miliardi di dollari previsti dalla legge (sforamento che rende necessario un accordo bipartisan al Congresso per evitare un default in agosto), la politica di deficit spending è ormai al capolinea. A maggior ragione se l’obiettivo è quello, peraltro dichiarato, di riportare il disavanzo federale sotto il 3% (a fine anno dovrebbe collocarsi al 10,8% del Pil). La Casa Bianca «continuerà a lavorare con il Congresso per trovare modi per ridurre la spesa», ha infatti chiarito Goolsbee.
La stessa Federal Reserve, una volta completato in giugno il piano di acquisto di titoli del Tesoro per 600 miliardi, potrebbe decidere di seguire la Bce sulla via del rialzo dei tassi, nonostante il rischio di impattare su una crescita già poco brillante e, di conseguenza, anche sul mercato del lavoro. Il compito delle Banche centrali non è mai semplice, ma in questa fase è complicato dall’andamento del petrolio, i cui rialzi scaldano l’inflazione.

Ieri, dopo l’ondata di vendite che giovedì ha trascinato al ribasso i prezzi delle materie prime, petrolio in testa, la pressione si è allentata, ma è rimasta la volatilità proprio a causa delle cifre sull’occupazione Usa. Il petrolio, che aveva iniziato le contrattazioni in territorio negativo, ha invertito tendenza, salendo a 102,27 dollari al barile, il 2,5% in più della chiusura precedente.

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