È il più votato dei deputati italiani Si contenta di 2.000 euro al mese

Pare che al veglione di San Silvestro nella sede della Comunità nazionale italiana a Fiume quest’anno siano mancate all’appello parecchie «signore panetone» con i rispettivi mariti. Ne dà notizia La Voce del Popolo, il quotidiano dei nostri connazionali che vivono in Croazia e Slovenia. Il motivo dell’assenza lo ha svelato la seguitissima rubrica Ma vara ti che roba, ma guarda te che roba: «El “mangia e bevi” dela festa bisognava portarselo da casa e quindi pagarselo de propria scarsella. Sta qua el problema: questi signori i ga capido che per loro xe finì la cucagna dei branzini e dei persuti gratis!», dove per «persuto» deve intendersi il crudo locale, che i buongustai reputano il più buono al mondo, meglio del San Daniele prodotto nel vicino Friuli e anche del Parma.
Con l’eredità economica che gli ha lasciato il maresciallo Tito, i 33.000 italiani d’Istria, Dalmazia e isole del Quarnaro devono essere necessariamente sensibili alla scarsella. Da queste parti un operaio o un impiegato – non fa molta differenza, ed è un altro retaggio del comunismo – guadagnano meno di 6.000 kune al mese, l’equivalente di 800 euro. Dunque sia lode all’onorevole Furio Radin, l’unico deputato italiano che siede al Sabor, il Parlamento di Zagabria, ma anche l’unico deputato italiano che si accontenta di 2.000 euro di stipendio mensile, lievitati a 2.500 da quando ha assunto la presidenza della commissione per i diritti umani e le minoranze nazionali, la più grande dell’assemblea legislativa croata. I suoi omologhi di Roma, senza essere presidenti di nulla, fra indennità, diaria e rimborsi viaggiano sui 15.000 euro. Il 500% in più.
E come poteva chiamarsi, se non Palazzo Modello, quello che da 15 anni ha in Radin il dominus incontrastato? Si tratta di un edificio monumentale di architettura mitteleuropea, sul corso principale di Rijeka, con la bandiera italiana e quella croata che penzolano dal balcone. All’ultimo piano ha sede l’Unione italiana presieduta da Radin, incaricata di coordinare le 50 Comunità italiane sul territorio: il sodalizio di Fiume, ubicato al piano nobile, è il più importante, circa 7.000 iscritti. Dà i brividi entrare alle dieci di mattina nel salone delle feste, un auditorium foderato di stucchi e specchiere veneziane, mentre il Collegium Musicum Fluminense sta provando Le Bourgeois Gentilhomme di Giovanni Battista Lulli. La cultura, in questa parte d’Italia che non è Italia, ha ancora una casa. Lo dimostrano le molteplici realtà che fanno capo all’Unione italiana: oltre alla Voce del Popolo, ci sono il periodico Panorama, Tele Capodistria, Radio Capodistria, una redazione di Radio Fiume che trasmette due notiziari quotidiani in italiano e un’altra redazione radiofonica a Pola, una ventina di scuole primarie, sei licei, il Centro di ricerche storiche a Rovigno, il dipartimento di italiano dell’Università di Pola, la compagnia Dramma italiano presso il Teatro Nazionale di Fiume. Forse perché qui la cultura coincide con la sopravvivenza stessa.
L’onorevole Radin, 56 anni, sposato due volte, due figlie, docente di psicologia (in aspettativa) all’Istituto di ricerche sociali dell’Università di Zagabria, dice d’essere anche «l’unico deputato italiano eletto col 300% dei voti», percentuale a prima vista più bulgara che croata. Nel 1992 esordì con un timido 55% di preferenze, al secondo mandato schizzò all’85%, al terzo e al quarto s’è mantenuto sul 79%. Totale esatto: 298%. Possono votare per lui soltanto coloro che al censimento si dichiarano italiani. Quest’unico seggio tricolore fu istituito dal Parlamento di Zagabria in seguito ad accordi bilaterali col governo di Roma. Era il 1991, la Croazia aveva da poco dichiarato la propria indipendenza dalla Jugoslavia e cercava il riconoscimento della comunità internazionale. L’Italia fu ben lieta di assicurarglielo, ma in cambio pretese garanzie di rappresentanza stabile per i nostri compatrioti che dal 1943 in poi avevano preferito il terrore, il rischio di finire nelle foibe, o comunque una difficile convivenza con i nuovi padroni titini, alla via dell’esilio, imboccata invece da altri 350.000 italiani con la morte nel cuore, senza alcuna speranza di ritorno.
«A Pola, dove sono nato, la gente era talmente sicura che finiva il mondo da portarsi via, negli esodi di massa del 1947 e del 1954, persino le ossa dei propri antenati», racconta il deputato. «Dei 32.000 abitanti che la città contava alla fine della guerra, emigrarono in 28.000. Mia madre fu la sola persona della sua famiglia a non fuggire, idem mio padre, che era figlio unico e non se la sentì di abbandonare al loro destino gli anziani genitori. Quale fu la tragedia più grande? Partire o restare? A tutt’oggi, nessuno può dirlo».
Chi rimaneva, perché lo faceva?
«Vi erano mille ragioni per decidere di partire o di restare. A un congresso di esuli a Chioggia ho detto una cosa sulla quale tutti i presenti hanno concordato: andarono via quelli che non ebbero la forza di rimanere e rimasero quelli che non ebbero la forza di andare via. Mio padre Claudio, giornalista della Voce del Popolo e corrispondente di Radio Trieste, per un periodo lavorò a Capodistria. Una sera trovò il proprietario del suo alloggio impiccato a una trave: non aveva avuto la forza di andarsene. Molti istriani di sinistra scapparono perché non si fidavano del nuovo regime comunista. Invece mille italiani socialisti di Monfalcone fecero il percorso inverso, vennero a cercare in Istria il sol dell’avvenire, ma la maggior parte tornò subito indietro. Non dimentichiamo che su 20.000 stalinisti deportati da Tito nel campo di concentramento sull’Isola Calva, 500 erano italiani».
Ma lei si considera italiano o croato?
«Italiano».
E se qualcuno le dà del croato?
«Se non lo fa per insultarmi, non mi offendo: ho anche la cittadinanza croata».
Si sente più italiano o più veneto?
«Per noi è la stessa cosa. La nostra capitale ideale sta da qualche parte fra Venezia e Trieste. La lingua è identità. Per sei secoli la storia di queste terre è stata la storia della Serenissima. Pensi che i 360 abitanti di Perasto, oltre le Bocche di Cattaro, in Montenegro, parlano tuttora il veneziano. In battaglia erano i 12 gonfalonieri di Perasto a difendere il vessillo della Repubblica veneta. Non lo ammainarono neppure quando il 12 maggio 1797 il doge si arrese a Napoleone. Scelsero la via dell’autogoverno e solo all’arrivo delle truppe austriache seppellirono il gonfalone di San Marco con quello straziante addio del capitano della guardia, “Ti con nu, nu con ti”, passato alla storia. Ancor oggi ci sono tre sindaci dei liberi Comuni in esilio di Pola, Fiume e Zara. Una volta l’anno s’incontrano con i sindaci veri. Ma non a Zara. Lì il nazionalismo croato è molto forte. Ci provò a suo tempo lo stilista Ottavio Missoni: porte chiuse. Non è andata meglio al suo successore, Franco Luxardo».
Il produttore del maraschino?
«Esatto. Abita a Padova. Suo padre Giorgio fu l’unico sopravvissuto della famiglia: il fratello Nicolò venne gettato in mare dagli slavi legato per la schiena alla moglie Bianca e l’altro fratello, Piero, fece la stessa fine pochi mesi dopo, con una pietra al collo. A Zara combattiamo invano da anni per avere almeno una nostra scuola materna».
I Radin di dove sono originari?
«Dell’Istria. Fra Parenzo e Umago c’è un paesino che si chiama Radini. Mio nonno era operaio nei cantieri navali a Pola, come mio bisnonno».
Se vivesse in Italia, in quale schieramento politico militerebbe?
«Sono indipendente».
Mi dice poco.
«Per otto anni sono stato il più radicale oppositore del presidente Franjo Tudjman. Oggi che lo scontro non è più ideologico, stento a capire chi si sente o di qua o di là. Su talune questioni l’Hdz, l’Unione democratica di Tudjman, che era di centrodestra, è stata più a sinistra del centrosinistra. Oggi è una forza di centro e ha rinunciato all’appoggio del Partito del diritto, di estrema destra, per allearsi con noi, i deputati che rappresentano le minoranze italiana, serba, ungherese, ceca e slovacca, albanese, bosniaca. È grazie a questa evoluzione democratica che la Croazia sarà ammessa nella Ue, nonostante solo il 40% dei cittadini si dichiari favorevole all’ingresso in Europa».
In pratica oggi lei appoggia il governo di Ivo Sanader, l’erede di Tudjman.
«È stata l’assemblea dell’Unione italiana a deciderlo. Se non l’avessi fatto, si sarebbe andati a nuove elezioni. Ho preferito stringere un patto col premier, basato sul rispetto dell’articolo 3 dell’accordo italo-croato, che prevede l’estensione della tutela all’intera minoranza, incluse, per capirci, le tre comunità arrivate 130 anni fa dal Bellunese nella Slavonia occidentale, fra Zagabria e Belgrado, che contavano un migliaio di anime prima dello scoppio della guerra fra serbi, croati e musulmani. Siamo riusciti a ottenere l’intitolazione bilingue di 69 località e sportelli italiani presso le questure di Fiume e Pola».
Quanti deputati siedono al Sabor?
«Centocinquantadue».
A Montecitorio sono più del quadruplo.
«Siamo sempre in diretta televisiva sul canale nazionale, dalle 10.30 alle 13.30».
Gli elettori vi controllano.
«Io ho una teoria in proposito: quando ci vedono in Parlamento, significa che ci riposiamo. Forse lavoriamo fuori, a telecamere spente. Forse. Ma se siamo in aula, significa che è già tutto deciso».
Avete indennità di trasferta, viaggi gratis in aereo e in treno, tessere autostradali?
«Né diarie né altri privilegi. Però chi viene da fuori ha diritto a un appartamento a Zagabria».
In Croazia il tasso di litigiosità fra i politici è alto?
«Come in Italia. Non siamo ancora venuti alle mani. Alla buvette sì, un’unica volta, dieci anni fa. Vige ancora un sacro rispetto di stampo austroungarico per i luoghi istituzionali, più che per le persone».
Roma come la sente? Vicina o lontana?
«Vicina. Però dobbiamo fare un forte lavoro di lobbying per ottenere ciò che ci spetta. Negli ultimi giorni della scorsa legislatura, con l’aiuto del ministro Carlo Giovanardi, siamo riusciti ad acquisire il diritto al passaporto italiano, oltre a quello croato».
Perché gli stranieri di nazionalità italiana non possono comprarsi casa in Istria mentre tedeschi, austriaci e belgi sì?
«Era così fino a due mesi fa. Ora possono farlo. I croati sostenevano che non vigeva la reciprocità, visto che a loro era impedito di comprare casa in Italia. Poi la Farnesina ha mandato una circolare ai notai, per chiarire che questa discriminazione non sussiste. Di fatto era sufficiente fondare una società in Croazia, costo dell’operazione 2.000 euro, agevolazioni infinite, tasse zero, e lasciarla inattiva per anni. Attraverso quella compravi ciò che volevi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai tutti gli alberghi di Pola, tranne uno, siano da tempo di proprietà di due italiani».
I beni degli esuli che fine hanno fatto?
«Un bene abbandonato resta tale per poco. Se hai lasciato vuota una villa negli Anni 50, come minimo a quest’ora è già stata rivenduta tre volte. Gli Stati non sono mai giusti e onesti con gli esuli. Gli istriani e i dalmati che ripararono in Italia o altrove sostengono che l’Italia ha pagato i danni di guerra alla Jugoslavia con le loro proprietà, e probabilmente è vero. Avrebbero diritto a un indennizzo almeno da Roma».
Che cosa resta di italiano in queste terre?
«L’idioma istro-veneto, simile al dialetto triestino. Per lungo tempo ci siamo vergognati di non padroneggiare l’italiano come i fiorentini. Oggi siamo orgogliosi di parlare il fiumano, il polesano, il rovignese, il vallese, il bumbaro».
Se parlate in italiano i croati vi capiscono e, soprattutto, vi ascoltano?
«In Istria sì. Il 60% della popolazione parla italiano, pur essendo gli italiani solo il 10%. Tutti i Comuni della costa sono bilingui e qui le scuole croate hanno per legge l’obbligo d’insegnare l’italiano. Inoltre la nostra minoranza ha diritto ad avere alcuni consiglieri e almeno il vicesindaco».
Ma le nuove generazioni parlano italiano o croato?
«Per l’80% i matrimoni sono misti. Quindi i figli apprendono in famiglia entrambe le lingue».
Qual è la legge croata recante la sua firma alla quale tiene di più?
«La legge costituzionale sulle minoranze. È passata nel 2003, dopo una battaglia durata per due intere legislature. Ai tempi di Tudjman ho costretto alle dimissioni il ministro all’Istruzione, Lilja Vokic, che voleva istituire un filtro etnico: a coloro che non avevano almeno un genitore italiano, sarebbe stato impedito d’iscrivere i figli alle scuole italiane. Ciò significava decretarne la chiusura, perché i nostri istituti sono frequentati anche da ragazzi croati. Ma le leggi sulle minoranze per passare devono avere la maggioranza qualificata. Nonostante i ripetuti tentativi, la signora Vokic non è riuscita a mettere insieme i due terzi dei voti. È stato l’unico ministro nella storia della Croazia a cadere per mano della minoranza. S’è dimessa in diretta tv, dicendo: “Adesso Radin sarà contento”».
Che cosa invidia all’Italia?
«È un sentimento che qui non proviamo. Se l’Italia vince i Mondiali, siamo contenti».
Ma a una finale fra Italia e Croazia, lei per chi tiferebbe?
«Non corro pericoli. Nella pallacanestro e nella pallamano tifo per la Croazia, le cui nazionali sono fortissime. Nel calcio tifo per l’Italia, nonostante abbia seguito per tre anni la Dinamo di Zagabria in tutti gli stadi. Dovevo scrivere un libro sulla feroce tifoseria della curva».
In vacanza dove va? Croazia o Italia?
«Non me lo ricordo più».
Molto diplomatico.
«Pola è sul mare. Io sono polesano, mia moglie è dalmata. Per inerzia finiamo a Pola. Poca vacanza, tanti problemi. Se dovessi scegliere una destinazione diversa, andrei sulle isole di Lissa, Meleda o Lesina, ancora incontaminate».
Come si viveva col comunismo?
«Se lo chiede ai croati, molti le risponderanno che stavano meglio allora. Si sono dimenticati che c’era un partito unico e che potevi solo amarlo, che non esisteva la libertà di parola, che la religione era mal sopportata. È vero, dal 1965 al 1980 il maresciallo Tito garantì un certo benessere. La Jugoslavia rappresentava uno Stato cuscinetto fra i due blocchi e il dittatore si giocava molto bene questa carta con l’Urss, gli Stati Uniti e i centri di potere mondiale. I traffici d’armi passavano da qui, la Croazia era diventata il primo importatore al mondo di banane dai Paesi in via di sviluppo. Morto Tito, s’è scoperto che vivevamo di soldi che non esistevano».
Verrà un giorno che l’Istria e la Dalmazia torneranno italiane?
«Saranno europee. La questione dei confini è chiusa per sempre. Né l’Italia né la Croazia hanno interesse a tenerla aperta. Si fanno le guerre, per i confini».
E che i morti delle foibe avranno giustizia?
«A Bleiburg in Austria, dove vi fu un eccidio di croati, tutti i politici, senza distinzioni, portano fiori. Lo stesso alla foiba di Jazovska. Solo in Istria questa ferita non s’è mai chiusa. Allora mi chiedo: non dipenderà dal fatto che qui la maggior parte delle vittime erano italiane? Ho proposto di piantare una croce sulla foiba di Vines, da dove furono tirati fuori un’ottantina di cadaveri. L’opinione pubblica croata era d’accordo, gli ex della brigata Pino Budicin erano d’accordo, il presidente della Croazia era d’accordo. Solo i leader partigiani croati si sono opposti.

Non sopportano l’idea che nella loro storia possa esserci una macchia. Ma un segno di pietà, prima o poi, a Vines sarà messo comunque. È destino che vada così. Perché non è giusto morire dentro un buco».
(360. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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