Pincio, allucinazioni di un mondo déjà-vu

«La ragazza che non era lei»: una storia che fa acqua tenuta a galla da una tecnica pubblicitaria

Come asseriva Leonardo Sciascia e come ribadiscono gli studi di storia del costume, in Occidente ogni trenta o quarant’anni esplode la speranza che un modo diverso, antiborghese di vita sia non solo possibile, ma dietro l’angolo, purché tutti si impegnino a sufficienza. Quando ciò accade, sorprendentemente, dopo un po’ la terra promessa appare e alcuni pionieri piantano lì le loro tende. La novità genera presto numerose narrazioni sensazionali e quelle a loro volta moltiplicano il numero degli adepti, finché l’illusione fattasi realtà crolla: o perché il tasso massimo di felicità che spetta all’uomo è stabilito dall’eternità e manometterlo, agli occhi degli dèi invidiosi, è una provocazione bella e buona; o perché il «sistema» reagisce e torna a ricordare a tutti che la Terra è una valle di lacrime. L’ultima di tali ondate di euforia c’è stata alla fine degli anni Sessanta: con «l’estate dell’amore», il movimento hippy e il clima trasparente che dominava l’Era dell’Acquario; c’è molta nostalgia di quel periodo nel nuovo romanzo di Tommaso Pincio, La ragazza che non era lei (Einaudi, pagg. 304, euro 14,80).
Stavolta, dal suo quasi omonimo Pynchon, l’autore italiano prende in prestito la svagatezza amabile e azzurrina de L’Incanto del lotto 49, ma arricchendola con i materiali più vari: William Burroughs, Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam, il film The Bitch e altro ancora che il lettore potrà divertirsi a rintracciare. La trama sembra il frutto di un abuso di sostanze stupefacenti: c’è una radio, la «radio del karma», che manda in onda sempre la stessa canzone, Blue Moon. Il dee jay Little Big Om (e va bene, non andiamo troppo per il sottile: questa è letteratura per guaglioni alternativi e la qualità dell’umorismo ne risente), non si sa come, conosce tutto della vita di Laika Orbit, nata dalla relazione tra una figlia dei fiori e uno dei suoi compagni di letto. Laika si trova per caso a Cloaca Maxima, la cui economia si regge sugli escrementifici. Assieme al fidanzato, che sembra la Bibbia ebraica e parla solo con le consonanti, la donna scende al motel Déjà-vu. La città è sommersa da una polvere rossastra e puzzolente che somiglia alla noia di Leopardi: occupa infatti sia lo spazio tra le cose, sia lo spazio dentro le cose. L’onnipresente sostanza è proprietà dello Stato, quindi è vietato mangiarla. E perché qualcuno dovrebbe desiderare ingerire una roba tanto ripugnante? Be’, perché è allucinogena, mentre tutto lascia sospettare che il regime sia proibizionista. Ma come si farà mai a controllare che nessuno assuma una droga così a portata di mano, direte voi. Semplice: la polvere ha occhi, e ogni granello è una microspia... Un’ultima domanda: perché si resterà intrappolati nella lettura di questo volume dopo averne sfogliato qualche pagina? Perché (la tardiva ma encomiabile confessione è a pagina 269) si serve di una tecnica sviluppata dai pubblicitari, la «manipolazione drammatica degli sbalzi». «Quando una storia comincia a fare acqua da tutte le parti, semplicemente fai vedere un’altra cosa. Cambio di immagine, di discorso, di prospettiva. La gente comincia a non capirci più un tubo e tutto gli sembra più interessante, perché ogni volta che l’attenzione di un individuo viene sbalzata si verifica un rilascio di ormoni nell’organismo».

Forse abbiamo afferrato, vediamo un po’: il re è nudo, la scala di Wittgenstein, il codino del barone di Münchhausen, il cretese mentitore, muoia Sansone con tutti i filistei... Solo un soldo per gli ormoni, grazie, ecco la ricevuta.

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