Confesso: abbiamo bevuto birre e whisky e fumato molti sigari e sigarette, e ciondolato senza rimedio tra gli sgabelli di bar illuminati da luci da night (anche in pieno giorno) e le poltrone sdrucite di hall consunte dalla sudicia lima della guerra. Ci sono dei puttanieri, tra noi, e dei bugiardi. Anche questo è vero. Gente che racconta storie, e personaggi, e imbastisce dialoghi emozionanti (se è bravo) restandosene nella sua cameretta d'albergo e dando fiato alle trombe della fantasia. Un po' per cialtroneria, e un po' per pararsi il culo quando il rischio di andare a sbattere contro una pallottola calibro 7,62 che viaggia a 710 metri al secondo «alla volata» si fa piuttosto concreto. L'adrenalina (la sua assenza induce crisi di astinenza) ha la sua buona parte di responsabilità, induce ad eccessi, anche comportamentali, ed è difficile resistervi.
Sicché, a conti fatti, ha ragione Anselmi quando dice che la figura dell'inviato di guerra, soprattutto se è trasposta al cinema, rischia di virare sul macchiettistico. Il fatto è che le macchiette non mancano.
Ci sono colleghi vestiti da Rambo o da pescatori, con giubbotti dotati di un imbarazzante delirio di tasche e taschini. C'è chi se la tira da Humphrey Bogart, montando un'aria da «scettico blu», e chi, per una sorta di strabismo nell'interpretazione del ruolo, non torna a casa a rivedere i bambini, se ne ha. E gli sfortunati, che fanno il mestiere con passione, e con sobrietà, e a casa non tornano lo stesso.
Insomma, il rischio di cadere nel patetico, o nel ridicolo, è effettivamente alto. Il mio ideale resta Bernardo Valli, grande inviato, uomo colto e fine analista, che a Bagdad veniva in giacca e cravatta; mangiava senza fare la lagna l'orrendo pastone che servivano al «Palestine», ma se valeva la pena di andare a vedere una storia da vicino (al tempo in cui si andava ancora a Bagdad) era sempre accanto a noi.
Non c'è un modo per fare l'inviato di guerra. Ciascuno ha il suo. Ma devo dire (25 anni di militanza nel ramo dovrebbero bastare, per tirare un bilancio) che gli inviati italiani sono meno spacconi, meno «macchiette» dei colleghi americani, che hanno visto troppe volte Full metal jacket e sono entrati perdutamente nella parte.
Birre e sigarette, ci stanno. Soprattutto la sera, quando si è inghiottita un bel po' di polvere e di paura, se di giorno non c'è stato da respirare che quello. Allentano l'ansia, diluiscono la noia. Soprattutto se uno resta 12 giorni prigioniero degli irakeni al «Palestine», alla vigilia della caduta di Saddam. O se resta intrappolato due giorni nella Basilica della Natività, a Betlemme, insieme con 200 palestinesi armati di mitra e gli israeliani, all'intorno, di carri armati. O dopo una giornata nelle mani dei servizi militari serbi, a rimediar sberle, perché si è andati a curiosare dove non si doveva.
Ma state tranquilli. Ancora qualche anno, e la figura dell'inviato di guerra sparirà anche al cinema. Nei conflitti moderni - diciamo dalla prima Guerra del Golfo - dove le guerre si combattono essenzialmente dal cielo, e sono dunque diventate largamente invisibili, gli inviati girano a vuoto. E quando l'azione si sposta sul terreno, la vita più facile non è.
È la dura lezione imposta dagli americani ai media dopo la guerra del Vietnam (troppo esibita, troppo aperta ai taccuini e alle telecamere per non avere un formidabile, e sul momento non calcolato, effetto boomerang sull'opinione pubblica, che finì per impiombare le gambe dei generali). Da allora ci sono due possibilità.
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