Il pm: «Condannate i Maiocchi a dieci anni»

La difesa: «Non hanno avuto il tempo di pensare»

«Non è stato un colpo deviato né sfortunato, ma è stato un colpo andato a segno perché non poteva non essere così». Il pubblico ministero Roberta Brera conclude la requisitoria nel processo a carico di Giuseppe e Rocco Maiocchi, padre e figlio, i gioiellieri di via Ripamonti accusati di concorso in omicidio volontario. Il 14 aprile del 2004 spararono contro i due montenegrini che stavano tentando un furto al loro negozio. Quattro colpi. Uno, quello di Rocco, uccise Mihailo Markovic, 21 anni. «Non si può parlare di legittima difesa - conclude il pm - perché non c’era necessità di sparare, né proporzione tra l’aggressione e la loro reazione». Quindi, la richiesta di condanna: dieci anni di reclusione per entrambi gli imputati, concesse le attenuanti generiche e quelle della provocazione.
Giuseppe e Rocco Maiocchi, 55 e 28 anni, seduti come sempre in prima fila, ascoltano immobili le parole del magistrato. Rocco tiene la testa tra le mani, il padre è fermo con le braccia incrociate sul petto. «C’era davvero la necessità di uscire in strada armati e di fare fuoco?», domanda in aula il pubblico ministero. «Gli imputati sono usciti dalla gioielleria deliberatamente armati, senza cercare alcuna soluzione alternativa, sparando contro soggetti intrappolati in una macchina, con l’intento non di recuperare la refurtiva, ma di fermare i due aggressori. Sono usciti e hanno sparato contro due persone disarmate».
È una ricostruzione dura, quella del magistrato. Che rifiuta di «giustificare» i due imputati, già vittime di tre furti in passato. «I Maiocchi - dice la Brera - non erano esasperati. I Maiocchi erano organizzati, con due pistole col colpo in canna, pronte per essere utilizzate». E anche se «non volevano uccidere, hanno agito a costo di ammazzare». Per questo, «il loro è stato un gesto volontario, conseguente al fatto di aver accettato la possibilità dell’“evento morte”».
E nonostante la richiesta di condanna sia la stessa sia per il padre che per il figlio («dobbiamo pensare che l’azione sia il frutto di condotte che insieme hanno determinato il fatto»), è nei confronti di Giuseppe Maiocchi che il pubblico ministero usa le parole più aspre. «È il padre che ha spinto il figlio a uscire in strada e fare quello che ha fatto. Se il padre non avesse cominciato a sparare - sostiene il pm -, il figlio non avrebbe fatto altrettanto».
In conclusione, qualche parola sul «dramma umano dei Maiocchi, che capisco, perché sono persone oneste. Ma quello che è successo è che un uomo è morto per il furto di cinque orologi. E una vita, che è sacra, può essere sacrificata solo in presenza di una necessità assoluta che nella fattispecie non c’era».
Conclusa la requisitoria, iniziano le arringhe dei difensori. Che sottolineano le contraddizioni della testimonianza di Zoran Bugarsky, il complice della vittima (condannato lo scorso 5 maggio a un anno e 10 mesi con rito abbreviato proprio per il furto di quei cinque orologi e per la ricettazione dell’auto nella quale è morto Markovic), e che ricostruiscono il 14 aprile di due anni fa. Meglio, quei ventotto secondi che trascorrono tra la vetrina della gioielleria che va in frantumi, sfondata a sprangate dai due montenegrini, e i colpi esplosi dagli imputati.

«Un episodio che si svolge in pochissimi istanti, durante i quali non c’è il tempo di ragionare». Gli interventi dei legali dei due gioiellieri - gli avvocati Marco Santamaria e Michele Monti - termineranno nel corso della prossima udienza, fissata per il 19 maggio. Quello stesso giorno, forse, la sentenza.

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