Torino - «Il sistema della giustizia? Da rifare, a partire dal codice di procedura». Bruno Tinti, procuratore aggiunto di Torino, non usa mezzi termini per rappresentare lo stato di malessere in cui versa il sistema giudiziario italiano. I recenti fatti di cronaca sembrano esserne lo specchio fedele: baby pirati della strada scarcerati dopo aver ucciso un bambino, guidatori ubriachi che non vanno neppure in galera dopo aver provocato altre morti sulle strade. E quando questi fatti succedono con una frequenza più che quotidiana, l’opinione pubblica resta sgomenta e si chiede come sia possibile ascoltare continui proclami di linea dura contraddetti ogni giorno dai fatti.
Procuratore, nel suo libro «Toghe rotte» lei lancia un’accusa: il sistema della giustizia è costruito per non funzionare.
I fatti di questi giorni sembrano darle ragione.
«Il nostro è un sistema inefficiente per motivi di carattere politico, legiferativo e organizzativo. Anche se i fatti di questi giorni non possono essere addebitati alle scelte dei magistrati».
Si spieghi meglio.
«Se chi guida in stato d’ebbrezza si rende responsabile di un crimine, non resta in galera perché non può essere arrestato. La legge prevede l’arresto solo per quei reati che comportano una condanna superiore ai cinque anni».
Cosa accade, allora, in casi del genere?
«L’arresto è previsto soltanto quando la sentenza è passata in giudicato».
Ma a quel punto sarà passato anche troppo tempo?
«In media occorrono 6 anni per una sentenza definitiva e a quel punto il reato è già prescritto».
È quello che accade anche nei casi di guida in stato d’ebbrezza?
«Una guida in stato d’ebbrezza e un omicidio hanno lo stesso iter, ma un processo per guida in stato d’ebbrezza si prescrive in cinque anni».
Ma secondo lei la prima causa di ingiustizie e inefficienze così macroscopiche è politica?
«Esistono leggi costruite per sottrarre la classe dirigente del nostro paese al controllo della legalità, ma ne approfittano anche i delinquenti comuni».
E le altre due cause?
«Esiste un problema di tipo organizzativo, legato all’incapacità dei magistrati di usare le nuove tecnologie e liberarsi di carta e penna».
C’è chi preferisce carta e penna al computer?
«Quei magistrati sono fermi a un’epoca artigianale: devono abbandonarla per passare a quella imprenditoriale, scegliere il pc e il lavoro di gruppo».
E il terzo problema della giustizia italiana?
«È quello più grave, legato al nostro codice di procedura penale. Io quel codice lo butterei via».
Provare a modificarlo?
«Follia. E a chi affidare il compito? Ai politici? Al Csm? Troppi interessi in ballo».
Anche tra i magistrati?
«Esistono diverse correnti all’interno del Csm, ciascuna con i propri interessi».
Anche qui una casta, come in politica?
«Le correnti
Soluzioni?
«Triste dirlo, ma al momento non ne vedo».
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