LA POLEMICA

I vecchi avvocati solevano dire, con una punta di sarcasmo, che la Cassazione è il grande magazzino del diritto penale, perché fra le sue decisioni si può trovare tutto e il contrario di tutto. Si riferivano a tante sentenze contraddittorie, eccentriche o estemporanee o disinvoltamente creative che contribuivano a ingenerare una sostanziale incertezza del diritto e ad alimentare quel fumo bizantino che avvolge tante carte giudiziarie nel nostro Paese. Ma talvolta a ingenerare la confusione e il turbamento dell’italiano medio non sono le decisioni della suprema corte, ma le interpretazioni che i mezzi d’informazione danno delle sue massime.
Ieri sera i telegiornali hanno lanciato la notizia secondo la quale la Cassazione aveva confermato la condanna inflitta a un docente cinquantenne di un liceo di Vicenza (un anno e qualche mese di reclusione), colpevole di avere minacciato di bocciatura una sua allieva. Immediatamente c’è stata la bagarre politico-declamatoria. Ma come, un docente non può minacciare la bocciatura per gli studenti che non si applicano, non riescono a risolvere i problemi di matematica, a scrivere in italiano o a tradurre dal latino? Ma questo non è un incoraggiamento agli eterni ripetenti o ai bulli?
Occhio al contesto. Il verdetto della Cassazione riguarda un insegnante un tantino al di fuori – ed è un eufemismo – dei modelli di comportamento richiesti ad un educatore. Questo «prof» imponeva agli allievi zoppicanti di prendere lezioni private proprio da lui, a pagamento s’intende; inoltre costringeva gli stessi studenti a testimoniare il falso sul programma svolto e sulla preparazione loro e dei loro compagni. Il caso giudiziario è nato dopo che lo stesso docente ha minacciato una ragazza la cui madre aveva denunciato in un’assemblea il comportamento illegale del prof. «O tua madre torna indietro – questo in sostanza aveva detto l’insegnante all’allieva - o sarai inevitabilmente bocciata». Un’ispezione ministeriale aveva confermato le irregolarità denunciate e il professore è stato condannato per abuso d’ufficio, violenza privata, tentata violenza privata ai danni della preside. Non per il reato di «minacciata bocciatura», che non esiste. Ed è in questo contesto che la suprema corte, confermando la condanna all’insegnante, ha stabilito che la «ingiusta prospettazione di una bocciatura rappresenta una delle peggiori evenienze per gli studenti» e che un simile atteggiamento del prof «è idoneo a ingenerare forti timori, incidendo sulla libertà morale» dei ragazzi. Ma occorre, perché questa eventualità si realizzi, che il docente che minaccia abbia già costretto gli allievi a diventare suoi clienti.
Basta. Un caso limite è stato malamente sviscerato.

È credibile che nessun giudice vorrà mai stabilire che va punito il docente che legittimamente, pur di cavare sangue dalle rape, agiti lo spauracchio della bocciatura.
In tutta questa storia c’è, però, un altro elemento che realmente allarma: quel tal professore insegna ancora, in un’altra scuola.

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