Addio a Staiti, barone nero e "fascista gentiluomo"

Si è spento a 84 anni "il deputato più elegante d'Italia". Una vita nel Msi fra battute e avventure, poi la lite con Fini

Addio a Staiti, barone nero e "fascista gentiluomo"

L'ultima uscita pubblica di Tomaso Staiti era stata pochi mesi fa. Era già malato, ma a vederlo nessuno lo avrebbe detto. Portava i suoi ottanta e passa anni come un ragazzo e il bastone che negligentemente aveva posato vicino a sé era stato scambiato per una civetteria, visto che poi, nella successiva passeggiata verso un ristorante, non ci si era mai appoggiato. Negli anni Ottanta Susanna Agnelli lo aveva definito «il deputato più elegante d'Italia», ma l'eleganza in lui era assolutamente naturale, come respirare, e quarant'anni dopo sembrava che il tempo non fosse mai passato.

L'occasione di quella serata era la presentazione di un libro a cui Staiti teneva molto, Le fogne del paradiso, di Albert Spaggiari, ovvero l'autobiografia romanzata di chi, nei cosiddetti «anni di piombo» italiani, era stato autore in Francia della «rapina del secolo», il colpo alla Société Général di Nizza. Sorta di «ladro gentiluomo», Spaggiari aveva svuotato i caveaux della banca lasciando come biglietto da visita una scritta che diceva: «Senza odio, senza violenza, senza armi». Di spiccate simpatie politiche di destra, era anche una sorta di «fascista gentiluomo» e questo, visti i tempi, era una contraddizione in termini, divertente, appassionante e insieme istruttiva. Anche Staiti era un «fascista gentiluomo», a partire dal cognome nobiliare, lungo quanto la Transiberiana, di Cuddia delle Chiuse, alla già citata eleganza, a un pénchant per l'avventura, a una militanza politica in cui le proprie idee non venivano barattate per una carriera o un conto in banca. Per farla breve, durante la latitanza del primo i due si erano conosciuti in Brasile, erano divenuti amici e Staiti aveva ricevuto in eredità i diritti dei libri scritti da Spaggiari, usciti in Francia con successo di pubblico e di critica, ma mai tradotti in italiano. Oltralpe, già allora, si poteva essere fascisti, gentiluomini e scrittori...

Anche Staiti scriveva benissimo. Dieci anni fa aveva deciso di raccontare se stesso e l'Italia che aveva conosciuto: la «dolce vita» e gli anni ruggenti di Portofino, la Milano del Nepenta, del Charlie Max e del Derby e poi la «Milano da bere», gli scandali economici, la politica dal dopoguerra alla nascita della Seconda repubblica... Era stato consigliere comunale del Msi a Milano, poi deputato, era uscito dal partito in polemica con Gianfranco Fini, si era ritrovato espulso da Pino Rauti dal nuovo partito che avevano fondato insieme... Avrebbe voluto raccontare il tutto sotto forma di libro-intervista e mi aveva chiesto di trovargli uno sparring-partner con cui dialogare, ma non ne restava mai soddisfatto. «Scusa ma perché non te lo scrivi da solo» gli dissi una sera. «Puoi farlo tranquillamente, hai la cultura adatta e la tua è una vita piena di incontri e di esperienze». «Non vorrei sembrare presuntuoso» mi disse e in questa risposta c'è tutto un mondo.

Il libro poi lo fece, di sua mano, appunto: si intitola Memorie di un fazioso, uscì per Mursia e nella sua prefazione Massimo Fini ne parla come del «viaggio di un'intelligenza acuta, brillante, curiosa, passionale e singolare». Soprattutto, a proposito dei ricordi di infanzia, di adolescenza, di giovinezza, li ritiene «pagine splendide, degne di uno scrittore, calde, emozionanti, a volte commoventi, lontanissime dall'aridità che, in genere, caratterizza gli scritti di un politico, poniamo di un Giulio Andreotti, del cui cinismo Stati di Cuddia delle Chiuse rappresenta la perfetta antitesi».

È questo un elemento che merita di essere sottolineato, perché se c'è stato un politico impolitico nel senso più puro e più nobile del termine è stato proprio Staiti. Era impastato di valori premoderni che nella società di massa e nella politica delle masse suonavano stridenti: il rispetto per se stessi e il rispetto dell'avversario, il senso dell'onore e della parola data, la fedeltà alle amicizie, l'indipendenza, la lealtà. Tutto ciò ne faceva un personaggio borderline, non irreggimentabile e da tenere ai margini, condannato a battaglie solitarie di cui era l'unico a pagare il prezzo e di cui spesso erano altri a incassare il risultato. Ne era perfettamente consapevole: «Oggi la politica utilizza mezzi di propaganda mostruosi; oggi la politica ha un'anima mostruosa. Forse l'ha sempre avuta; erano soltanto i nostri cuori e i nostri occhi a essere diversi». A questa «diversità» è stato fedele sino alla fine: «Non ho rimpianti né rimorsi. Rifarei tutto ciò che ho fatto. Da bambino ho assistito al crollo di un intero mondo e ho visto bruciare le città. Spero di non vedere bruciare i miei sogni».

In quella sua ultima serata milanese, nel ricordare chi per lui era stato «un audace e ironico avventuriero col gusto del beau geste e della provocazione intelligente», sottolineò anche come a Spaggiari il destino avesse «risparmiato la vecchiaia, questa pena di morte distribuita a rate quotidiane». La vecchiaia era divenuta un po' il suo cruccio, anche se non c'è mai stato un vecchio meno vecchio di lui... L'uscita di Le fogne del paradiso, aggiunse, «è per me una vittoria - forse la prima e vera. Certamente anche l'ultima».

E però resta l'immagine di questo hombre vertical, bello e sorridente, che va incontro alla propria fine con lo sprezzo noncurante di chi deve sbrigare una faccenda spiacevole, ma non più rimandabile. «Confesso che ho vissuto» dice nel salutare chi gli ha voluto bene e non sa, né può, dimenticarlo.

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