Altro che integrazione. L'Italia per gli stranieri è una "fabbrica" di visti

La conferma dei dati Istat: chi arriva lo fa per andare il prima possibile verso l'Europa

Altro che integrazione. L'Italia per gli stranieri è una "fabbrica" di visti

Milano - Arrivano per andarsene il prima possibile. Non per restare, integrarsi o mettere radici a lungo termine. Si materializzano sulle nostre coste dopo essere sfuggiti all'inferno dei barconi, scompaiano nel cono d'ombra degli irreperibili, riappaiono come fantasmi a distanza di chilometri, di mesi o anni. Qualcuno agguanta lo status di rifugiato o un'altra forma di protezione, umanitaria o sussidiaria, che consente di non essere fermato come irregolare e di pianificare la tappa successiva, di solito verso l'Europa del Nord. Non vengono, insomma, quasi mai qui per rimanerci. Il loro primo Paese d'approdo non è quello del loro futuro. L'Italia resta la meta provvisoria che consegna loro la prima grande disillusione di una vita migliore in Europa, sala d'aspetto a porte girevoli verso gli altri Stati membri.

Lo conferma l'Istat nel suo rapporto alla commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, datato novembre 2016: prende come riferimento due ondate migratorie. Quella del 2007 e quella del 2011. E fa notare che tra gli stranieri che sono arrivati nel nostro Paese con la prima, ottenendo asilo, la quota di chi risulta ancora presente sul territorio a oggi, nove anni dopo, è del 64,9%, mentre quella di coloro che hanno raggiunto l'Italia nel 2011 come rifugiati, è appena del 38%. Insomma, a distanza di quattro anni dalla concessione del permesso di restare, la maggioranza dei profughi se n'è andata. C'è chi non ha ottenuto il rinnovo, chi non trovando un lavoro ha scelto di non piantare radici: per i più l'Italia è servita solo come uno snodo logistico e burocratico.

Infatti, parallelamente all'aumento dei flussi migratori in ingresso, soprattutto provenienti da Nigeria, Eritrea, Guinea, Costa D'Avorio, diminuisce «la propensione al radicamento sul territorio dei nuovi entrati», ha spiegato il presidente dell'istituto nazionale di statistica Giorgio Alleva. Un fenomeno che l'Italia sconta per via della sua posizione geografica, e che vede «migrazioni temporanee destinate a non stabilizzarsi sul territorio». Spesso durano il tempo di un transito. Quello che serve per procurarsi un documento. Tanto che, al di là delle inchieste aperte sul business dei documenti falsi e sulla rete di criminalità che si alimenta intorno ai centri di accoglienza, i richiedenti asilo non scelgono una città in cui stabilirsi. Si muovono all'interno del nostro Paese. Chiedono asilo da una parte, lo rinnovano dall'altra. Quasi il 42% dei richiedenti protezione internazionale tra il 2011 e il 2016 ha rinnovato il permesso «in una provincia diversa da quella di prima emissione», dimostrando una notevole «propensione alla mobilità interna». Dati che incrociati con quelli dei «processi di integrazione di lungo periodo» consegnano un'ulteriore lettura sulle promesse di inserimento degli stranieri: se negli ultimi anni è cresciuto il numero di immigrati che diventano cittadini italiani, (da 56mila del 2011 a 178mila nel 2015), è tra i giovani stranieri di seconda generazione che si registra il boom di cittadinanze. Dalle 10mila del 2011 alle 66mila nel 2015, di cui la metà a chi ha meno di 30 anni. Ragazzi nati da genitori stranieri che dopo il 18esimo anno diventano italiani a tutti gli effetti. Spesso solo sulla carta, perché, il 33% non ci si sente davvero.

Secondo un'indagine Istat del 2015 sull'integrazione delle seconde generazioni, solo per il 38% degli intervistati la cittadinanza non è una mera questione «formale», ma rispecchia di un sentimento di appartenenza al nostro Paese. Estraneità che si riduce tra i nati in Italia (meno del 24%). Ma il fenomeno della «sospensione dell'identità», come la definisce l'Istat, tradisce una promessa d'integrazione che non può dirsi del tutto riuscita.

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