Amatrice non c'è più, ma già pensa alla rinascita

Tra la polvere e le macerie della città il sindaco promette: «Risorgeremo»

Massimo Malpica

nostro inviato ad Amatrice (Rieti)

Rita Facchinetti ha addosso la tuta rosa con cui era andata a dormire poche ore fa. E i piedi, scalzi, sono infilati in due buste di plastica. «Nemmeno lo so come mai siamo vivi. Io e mio marito ci siamo svegliati per quella botta e c'era già l'inferno: polvere, calcinacci, vetri, l'aria era irrespirabile, i muri si sgretolavano. Non so come ho visto un buco, nel muro, e mi ci sono infilata d'istinto, portandomi dietro mio marito. Pensavo fosse finita ma poi ho alzato gli occhi e ho visto un po' di cielo stellato tra la polvere, poi mi sono resa conto che eravamo in piedi su metri di macerie. Siamo vivi, noi e pure il cane. Però la casa di mia madre che abbiamo restaurato per passarci le vacanze è distrutta. Ma è tutta Amatrice che è distrutta, cancellata. E chissà se e quando tornerà mai a esistere». Amatrice non c'è più. Sgretolata come un biscotto sotto le scarpe dalla violenza del terremoto che l'ha colpita nella notte tra martedì e mercoledì. Svuotata tra crolli e morte, i monumenti e gli antichi palazzi sfigurati, il Corso devastato, istituzioni cittadine come il cinema rosa in stile ventennio o il ristorante Roma venuti giù mattone dopo mattone.

E Amatrice sparisce proprio nei giorni in cui era più viva e vivace che mai, nella settimana che culmina con la «sagra degli spaghetti», va da sé, all'Amatriciana, il condimento famoso nel mondo che a questo borgo deve il suo nome. Sono, anzi erano questi i giorni nei quali la città sabina si popola all'inverosimile e decuplica, almeno, i suoi abitanti. Dal migliaio sparuto dei freddi giorni invernali alla gran caciara agostana. Case stipate di parenti, amici, amori e affetti, bambini, giovani e anziani, amatriciani indigeni o d'adozione, comunque tutti passati per questi vicoli che profumavano di storia e di guanciale prima di lasciare la via Salaria per farsi portare altrove dalla vita, ma immancabilmente richiamati qui una volta l'anno almeno.

Sotto le macerie di una città che per metà è polvere e per l'altra metà pericolante Amatrice è già diventata solo un ricordo. «Non la riconosco, non riconosco questo posto», sospira un anziano con la testa coperta di cerotti e il volto grigio dalla polvere. L'ha salvato la paglia tra le travi del tetto e l'intonaco, ripete a tutti, e da sopravvissuto si guarda intorno con gli occhi sgranati e increduli. «Risorgeremo», promette il sindaco Sergio Pirozzi, che nello sgomento fa affidamento sul suo passato da allenatore di calcio per motivare se stesso e la sua città. Ma i corpi avvolti pietosamente nelle coperte che col passare delle ore si accumulano nel giardino all'inizio di Corso Umberto sono coltellate a una città ferita, che una prova come questa non l'aveva mai dovuta affrontare. Ogni strada, ogni piazza, ogni vicolo sembra adesso una discarica di calcinacci, ogni isolato una montagna da scalare. Foto di persone care a qualcuno, cuscini ricamati, pezzi di mobili, vestiti, scarpe spuntano come testimonianze di un naufragio sulla terraferma tra le pietre polverose che un tempo erano case antiche e ora sono la tomba dei tanti inghiottiti nel sonno dalla terra. E la prigione di chi i soccorritori sperano ancora di tirare fuori vivo.

Perché se non c'è più Amatrice, ci sono gli amatriciani. Che scavano a mani nude quando il sole non si è ancora alzato, e poi lavorano fianco a fianco con i soccorritori, tra barelle che passano di mano, e le due ragazze ferite ma vive tirare fuori da quel che resta di una casa riescono nel miracolo di far sorridere. Tutti fanno il loro, nonostante le scosse che tornano. Come il vigilantes che presidia l'ospedale, inagibile e svuotato dei suoi dodici pazienti (loro tutti vivi), anche se ha il cuore spezzato perché la fidanzata di suo figlio «è ancora lì sotto».

O il poliziotto di Ascoli al parco giochi trasformato in obitorio, proprio di fronte alle macerie della casa dove abitavano i suoi cugini. «Sono morti, ma non li stanno recuperando, perché giustamente si pensa prima ai vivi». Perché solo così Amatrice potrà esistere ancora.

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