Roma Niente di nuovo sotto il sole. Cambiano le amministrazioni, si rinnovano i proclami ma il nodo della gestione dei nomadi nella capitale non si risolve. Persino la Raggi, che pure in campagna elettorale aveva promesso il superamento della logica dei campi rom, promettendo di chiudere i villaggi senza indeterminati rinvii, ha finito invece per procedere sul solito solco, senza alcuna soluzione di continuità rispetto ai suoi predecessori. Anche l'ultimo rapporto del comitato per i diritti umani delle Nazioni unite, a fine marzo, ha stigmatizzato le politiche della sindaca pentastellata, esprimendo «preoccupazione» per come nella capitale vengono gestiti i rom, e soprattutto i campi. In questi ultimi, secondo l'Onu, il Campidoglio avrebbe dovuto fare marcia indietro sulle misure di sicurezza imposte agli ospiti, considerate dal comitato «segreganti».
Il bello è che l'unica nota positiva sull'operato della sindaca messa nero su bianco nel rapporto Onu riguardava lo stop al bando dell'ennesimo, nuovo insediamento per nomadi deciso alla fine dello scorso anno, come sospensione in autotutela voluta dal dipartimento delle politiche sociali. Bando che però è stato poi repentinamente scongelato dalla stessa giunta della Raggi che alle soglie della primavera ha evidentemente cambiato idea, decidendo di andare avanti con l'apertura di un nuovo campo a Roma nord, destinato tra l'altro ad accogliere «120 nuclei familiari di etnia rom» precedentemente ospiti del camping River, a cui erano periodicamente riaffidati in base a procedure negoziate «bacchettate» dall'Anac di Cantone. E dunque ecco la soluzione targata Raggi: chiudere un campo - il River - per aprirne un altro del tutto nuovo, il cui bando prevede una spesa di più di 1,5 milioni di euro per 15 mesi. Un pasticcio che cancella ogni speranza di cambiamento, tanto che l'associazione 21 luglio, onlus che combatte le discriminazioni, ha pensato bene di girare anche il nuovo bando all'Anac di Raffaele Cantone.
Eppure è da tempo che si tenta di cambiare passo e strategia sulla gestione dell'accoglienza dei rom nella capitale. Anche il governo, dal 2011, ha provato a dettare la linea per l'inclusione dei rom e il superamento del nomadismo, ma anni dopo la situazione sembra davvero cambiata di poco. Pure la Regione ha istituito un tavolo per «l'inclusione dei rom», che si è riunito per la prima volta a marzo del 2016, senza però riuscire a produrre nel corso dell'anno uno straccio di documento condiviso.
E mentre le istituzioni galleggiano nel continuismo, secondo l'ultimo rapporto della «21 luglio», i soli nomadi ospiti dei campi ufficiali al 2016 erano 3.772 (su 18mila in tutta Italia), molti di più contando quelli ospitati nelle baraccopoli informali. Una famiglia costa alle casse capitoline circa 33mila euro l'anno, e il Campidoglio avrebbe speso quasi 80 milioni di euro tra stanziamenti per accoglienza e per la scolarizzazione nel solo periodo 2006-2011. Eppure le condizioni di vita non sono certo delle migliori, anche nei campi «ufficiali»: qui l'aspettativa di vita è inferiore di 10 anni rispetto alla media italiana. Case-container vecchie, malconce, spesso ampliate con materiali di risulta insalubri e pericolosi, condizioni igienico-sanitarie tutt'altro che impeccabili. Per non dire dei servizi: la baraccopoli di via Cesare Lombroso (40 famiglie e circa 200 residenti) e quella di via Gordiani (dove abitano una 70ina di ragazzini di etnia rom) non sono nemmeno raggiunte da una linea di trasporto che permetta ai ragazzi ospiti del campo di andare a scuola. Anche dove il trasporto c'è, d'altra parte, la scolarizzazione procede a fatica: su 1.
972 minori iscritti nel 2015-2016, il dato della frequenza non arrivava al 20 per cento (crollando al 10,5% nel solo campo di Castel Romano, il più grande di Roma). E il monitoraggio, per giunta, non è fatto sulle presenze reali in aula, ma «contando» ogni giorno i ragazzini rom a bordo degli scuolabus.
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