Alla vigilia dell'incontro in Florida di Volodymyr Zelensky con Donald Trump, un attacco missilistico russo particolarmente brutale su Kiev e i suoi sobborghi segnala la scarsa credibilità della sbandierata volontà di pace di Vladimir Putin. Zelensky ha sottolineato che "i rappresentanti russi si impegnano in prolungati colloqui, ma in realtà i Kinzhal e gli Shaheed parlano per loro". Il presidente ucraino si riferiva al massiccio lancio di missili balistici e di droni iraniani che anche ieri hanno devastato aree abitate e impianti energetici della capitale, provocando due morti, 28 feriti e lasciando senza corrente elettrica centinaia di migliaia di residenti.
Tragica normale amministrazione per l'Ucraina aggredita, ma questi crimini di guerra di giornata stridono con la retorica insistente della "pace mai così vicina", ripresa volentieri anche da Mosca. Si tratta in realtà, come già troppe volte siamo stati costretti a ripetere, di un cinico gioco delle parti. Trump e i suoi inviati ripetono il mantra presidenziale del successo a portata di mano per il famoso piano in venti punti, realizzabile però soltanto se il Cremlino lo approverà, il che non risulta; Zelensky, che ha capito quanto sia smisurato l'ego di Trump, recita diligente la parte dell'entusiasta e grato sostenitore del suo piano, salvo continuare a ricordare (giustamente) che Putin non vuole la pace, ma solo imporre le sue pretese inaccettabili per continuare la guerra; e Putin prosegue nella sua tattica di guadagnare tempo, approfittando di un Trump che gli consente questo e altro: i negoziatori vengono istruiti a parlare il più a lungo possibile, senza mai mostrare la minima disponibilità a cedere su nulla e pretendendo che gli ucraini invece lo facciano su tutto. E infatti ribadisce: "Se Kiev non vuole risolvere il conflitto con la diplomazia lo faremo noi con la forza". Si continua quindi una guerra che non s'intende affatto fermare, salvo attribuire speciosamente agli ucraini e ai loro sostenitori europei l'intenzione di sabotare una pace imminente che molti desiderano, ma che non c'è affatto.
Questo è. E anche ieri, alla vigilia dell'incontro di Mar-a-Lago, la Russia ha proseguito la sua strategia quotidiana per l'Ucraina: bombe (tante) e chiacchiere (tantissime). Lo scopo delle prime è imporre la massima pressione possibile agli stremati ma indomiti cittadini ucraini, infliggendo loro terrore, lutti e gelo; quello delle seconde è diffondere una falsa retorica di disponibilità alla pace per assecondare Trump, fermo restando però che "pace in Ucraina" per Putin significa imporre le pretese russe senza nulla concedere: il che porta all'ovvia impossibilità di applicare qualsiasi piano di pace che da queste si distinguano, con il corollario deciso in anticipo dal Cremlino di attribuirne falsamente la colpa ad altri.
Dal lato politico, Putin sembra dunque motivato a continuare la guerra fino a una vittoria che non arriva mai, mentre da quello economico è ormai preda delle sue stesse scelte: un'economia russa drogata da una crescita legata alla produzione bellica che non può essere fermata, pena il rischio di recessione e conseguenti problemi sociali. Il Cremlino continua anche a innalzare l'asticella della sua guerra ibrida all'Europa, che Putin considera un nemico non meno dell'Ucraina: attacchi hacker a sistemi vitali nell'Ue e nel Regno Unito, spionaggio condotto anche dagli equipaggi della flotta ombra che trasporta greggio russo nel mondo in barba alle sanzioni occidentali, droni inviati a minacciare aeroporti civili e basi militari europei.
Il tutto mentre promette un mirabolante patto di non aggressione russa all'Europa con "garanzie legali". Peccato che la loro credibilità sia pari a quelle solennemente offerte all'Ucraina nel 1994 in cambio della sua rinuncia all'arsenale nucleare ereditato dell'Urss: zero assoluto, come si è dimostrato.