Coronavirus

Le carte sbugiardano Conte: Codogno ha seguito le regole

Secondo la circolare governativa il «paziente 1» non era sospetto. Altro che «gestione non del tutto propria»

Le carte sbugiardano Conte: Codogno ha seguito le regole

È il 15 febbraio quando Mattia mostra i primi sintomi. Quella del 38enne di Castiglione d'Adda, primo caso italiano di coronavirus, sembra una normale influenza. Nulla in fondo fa pensare al peggio: il governo ostenta sicurezza e nessuno si aspetta che Covid-19 possa davvero diffondersi in Italia. Tre giorni dopo, però, le cose si complicano. Mattia si presenta al pronto soccorso di Codogno: sta male, ha un po' di febbre. Ma i medici lo rimandano a casa. Passa qualche ora e il 38enne torna di nuovo all'ospedale della cittadina nel Lodigiano. Stavolta viene ricoverato, il test non mente: è positivo. A quel punto esplode il panico: i medici che lo hanno curato e tutte le persone che sono entrate in contatto con lui vengono sottoposte a tampone. Risultato: 240 casi in Lombardia in pochi giorni e 11 morti in tutta Italia. È l'inizio dell'epidemia.

Per capire l'emergenza Covid-19 bisogna partire da qui: dalla gestione del «paziente uno». Attorno al nosocomio di Codogno si giocano infatti sia la partita sanitaria che quella politica, fatta di accuse reciproche tra governo e Regione Lombardia.

Tutto inizia quando Giuseppe Conte evoca una falla nel sistema sanitario lombardo, denunciando la gestione «non del tutto propria» della crisi da parte di «una struttura ospedaliera». Il premier non lo nomina, ma è all'ospedale di Codogno che pensa quando cita i motivi che avrebbero favorito la nascita del focolaio lombardo. La replica è secca. «Abbiamo seguito i protocolli che ci venivano dati dal governo», dice il governatore Attilio Fontana. E non ha tutti i torti: le circolari ministeriali dimostrano infatti che se una falla c'è stata, a provocarla sono state proprio le disposizioni dell'esecutivo.

In molti si sono chiesti: perché Mattia è stato dimesso prima di essere sottoposto a tampone? Perché non è stato isolato subito? Semplice: perché le indicazioni del ministero della Salute non lo prevedevano. Mattia infatti non rientrava tra i casi di «paziente sospetto», almeno non secondo la definizione contenuta nella circolare del 27 gennaio. Per il governo non era necessario indagare chiunque si presentasse in ospedale con qualche linea di febbre. Anzi. Era da considerarsi un «caso sospetto» solo la persona con una «infezione respiratoria acuta grave» ma che fosse anche stata in «aree a rischio della Cina nei 14 giorni precedenti all'insorgenza» dei sintomi.

Allo stesso modo, andava trattata con sospetto una persona «con malattia respiratoria acuta» e che avesse anche avuto un «contatto stretto con un caso probabile o confermato da nCoV», «visitato un mercato di animali vivi a Wuhan» oppure «frequentato una struttura sanitaria» dove «sono stati ricoverati pazienti con infezioni» da Covid-19. Insomma: parametri ben definiti.

Il problema è che Mattia non rientrava in nessuno di questi criteri. Ai medici non aveva indicato collegamenti con la Cina, fattore che - circolari alla mano - non permetteva agli operatori sanitari di identificarlo come un «caso sospetto». Solo in un secondo momento, di fronte all'insistenza dei medici, la moglie ha ricordato quella cena tra il marito e un amico tornato dalla Cina (peraltro risultato negativo al test). Paradossalmente, se la donna non avesse indicato questa (falsa) pista, seguendo i protocolli del governo nessuno avrebbe mai fatto il tampone. E il virus ora circolerebbe liberamente in Italia. «L'ospedale non ha commesso nessun errore e anzi ha fatto un passo in più - ha ribadito Fontana - Conte se ne è reso conto e ha modificato la sua affermazione».

Ma ormai la figuraccia era servita.

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