Nessun nuovo decreto o dcpm: è un'ordinanza del Ministero della salute, retto da Roberto Speranza, a sancire il nuovo giro di vite: dal divieto di andare a passeggiare nei parchi pubblici a quello di passare il weekend nella propria casa al mare.
Assediato da ogni parte, il governo per tutto il giorno ha preso tempo: «Abbiamo stabilito con il decreto dell'11 marzo il lockdown, comprese tutte le attività non essenziali, per due settimane. Bisogna aspettare il 25 per tirare le somme, verificare i risultati e poi decidere», è il ragionamento che si fa a Palazzo Chigi.
Il premier Giuseppe Conte ha visto i ministri chiave in mattinata, i capi-delegazione di maggioranza nel pomeriggio, e per tutto il giorno ha resistito al pressing di chi chiedeva un nuovo provvedimento del governo, a valenza nazionale, per imprimere una nuova stretta ai divieti e alle clausure vista l'espansione del contagio. Mentre da Regioni e comuni si moltiplicavano appelli, richieste e iniziative autonome. Alla fine, come si spiega, si è deciso di affidare al ministero di Speranza l'iniziativa di emanare indicazioni che serviranno a «dare copertura giuridica alle decisioni prese nei comuni e nelle regioni più martoriati dall'emergenza». Ma senza rimettere in discussione l'impianto e i tempi delle decisioni prese dall'esecutivo.
Nel governo le resistenze sono state forti: «Non possiamo farci travolgere dal decisionismo autoritario, inclusa caccia al runner, senza avere dagli scienziati maggiori elementi: rischiamo di creare una crescente tensione nel paese mentre le strade sono presidiate dall'esercito», dicono nel Pd. Il timore, espresso da più parti a taccuini chiusi, è che un ulteriore inasprimento delle limitazioni di movimento a livello nazionale finisca per creare problemi di ordine pubblico, mandando fuori controllo la situazione. L'ipotesi di restrizioni all'orario dei supermercati, ad esempio, pur avallata dai sindacati, ha suscitato un'alzata di scudi da ogni parte, maggioranza inclusa: e infatti il governo si è affrettato a frenare. Ma malumori e critiche nella maggioranza non mancano: Matteo Renzi ieri è tornato all'attacco sulla gestione fallimentare dell'emergenza nelle carceri, chiedendo le dimissioni dei responsabili del Dap, e sulla «serrata» del Parlamento.
Nel frattempo, però, occorreva anche imporre una ratio al moltiplicarsi di ordinanze e divieti decisi a livello locale da regioni e comuni, dal fronte lombardo dove il governatore leghista Fontana ma anche il sindaco dem di Bergamo Gori chiedono di «chiudere tutto» alla Roma grillina dove la Raggi, in orgasmo da campagna elettorale (e con i sondaggi sotto zero) si improvvisa sceriffa, organizza blocchi stradali e fa surreali appelli a «stare a casa» dal bel mezzo di un prato, modello Vispa Teresa, in un parco pubblico. «Basta ordinanze singole - dice il ministro degli Affari regionali Boccia - perché non incidono se non sono omogeneizzate con le indicazioni dello Stato».
Il rischio di un anarchico «ognuno per sé» viene paventato dal Pd, che fa scudo a Conte: «Evitiamo di alimentare rincorse alle chiusure laddove le autorità sanitarie, per e specifiche condizioni territoriali, non valutino diversamente. Il governo e le Regioni concordino su cosa è indispensabile continuare a produrre, distribuire e commercializzare per garantire la sopravvivenza, e cosa si può fermare.
E una volta concordato, la si smetta di invocare ogni giorno nuove misure», è il messaggio inviato dal Nazareno a chi, come Matteo Salvini, viene sospettato di speculare elettoralmente fomentando divisioni. Le Regioni, ricordano dal Pd, hanno «tutta la legittimità di adottare ordinanze restrittive, concordando azioni concrete senza perdere altro tempo».
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