Stavamo scherzando. Giuseppe Conte ingrana la retromarcia sulle armi all'Ucraina, si rimangia i penultimatum in vista delle comunicazioni del premier Mario Draghi al Senato previste per il 21 giugno e rassicura: «Non abbiamo mai inteso questo confronto in Parlamento come un test per mettere in difficoltà il governo». La colpa dell'hype che si era creato intorno all'appuntamento che ci sarà tra 11 giorni in Parlamento, prima a Palazzo Madama, poi alla Camera dei Deputati, è tutta dei soliti «commentatori maliziosi» che si annidano nelle redazioni dei giornali.
Conte parla da Molfetta, provincia di Bari, a margine di un incontro elettorale in vista delle amministrative di domenica. A proposito delle comunicazioni di Draghi in Parlamento sulla guerra in Ucraina, smorza i toni: «Noi abbiamo inteso il confronto del 21, per rispetto al Parlamento, dove ovviamente è giusto che i rappresentanti del popolo abbiano un confronto, ma per rafforzare il mandato del governo e per indirizzarlo verso un negoziato di pace». Eppure era stato lo stesso Conte, poco più di un mese fa, a minacciare la conta parlamentare sul sostegno militare a Kiev. Il 6 maggio il leader grillino annunciava un documento del M5s «per fare chiarezza» sul materiale bellico da consegnare agli ucraini. Lo faceva insistendo sulla pace e sostenendo la tesi secondo cui «l'Italia ha già fatto la sua parte». E ancora negli scorsi giorni: «No a un nuovo decreto armi, Kiev è stata aiutata a sufficienza». Con una postilla: «No a una crisi di governo».
Tanto rumore per nulla. Perché alla fine, il 21 giugno, è prevedibile che venga presentata una generica risoluzione di maggioranza che tenga insieme tutte le sensibilità dei partiti al governo. Nessuna menzione di nuove armi, accento sull'«escalation diplomatica» auspicata da Conte. Sulla marcia indietro, probabilmente, hanno pesato i numeri. Tra Camera e Senato, la maggioranza degli eletti pentastellati non vuole correre nemmeno il rischio di una crisi di governo.
In pochissimi avrebbero seguito l'avvocato sulla strada della destabilizzazione. La voglia di portarsi a casa lo stipendio fino alla fine della legislatura e la paura di non essere rieletti in caso di voto anticipato pesano più di qualsiasi arma da mandare all'Ucraina.
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