Nel tribunale milanese dei mille sprechi, dei megaschermi al plasma, delle opere faraoniche e interminabili, mancano i pochi euro che servirebbero a fare uscire dal carcere un imputato che è dentro da 4 anni senza una condanna definitiva. L'imputato si chiama Piero Daccò, lobbista della sanità pubblica e privata, accusato di costituire un perno cruciale del sistema di potere di Roberto Formigoni. Lo misero in galera nel 2011 per la bancarotta del San Raffaele. E i pochi euro che lo separano dal ritorno a casa sono il costo di un braccialetto elettronico, un oggettino bassa tecnologia che in paesi come la Francia e gli Stati Uniti è di uso comune per controllare i detenuti ai domiciliari.
A Daccò, dopo una carcerazione preventiva inverosimile, la Corte d'appello di Milano ha finalmente concesso i domiciliari: ma con l'obbligo del braccialetto. Peccato che i braccialetti siano finiti, per il banale motivo che in tutta Italia gli apparecchi a disposizione sono solo duemila, una cifra irrisoria. E quindi Daccò rimane in galera.Lo scandalo era stato denunciato nei giorni scorsi dagli avvocati dell'Unione delle camere penali, che in occasione della settimana di sciopero terminata ieri avevano lanciato la campagna «più braccialetti meno carcere», denunciando come l'annuncio del governo, che aveva modificato nel dicembre 2013 un articolo del codice di procedura penale per agevolare il ricorso ai braccialetti, sia stato sostanzialmente vanificato dalla sciatteria con cui è stato gestito l'appalto per la gestione del servizio di controllo a distanza. E che rende inevitabile che, al momento dell'arresto, i giudici continuino a spedire in carcere indagati che potrebbero, più umanamente e con minore costo per la collettività, essere rinchiusi tra le mura di casa loro, con un allarme pronto a scattare in caso di allontanamento.Ma la vicenda di Daccò è ancora più surreale. Perché non si tratta di un ladruncolo portato al processo per direttissima dopo una notte passata in guardina, ma del recordman italiano della carcerazione preventiva, un imputato in attesa di giudizio che solo un incrocio di effetti perversi tra sentenze, annullamenti e rinvii sta tenendo in carcere.
A denunciarne la situazione era stato Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia, imputato insieme a lui nel processo per le presunte tangenti sulle prestazioni della sanità privata. Daccò e Formigoni, amici di remota data, si erano ritrovati nella stessa aula: Formigoni sempre uguale, Daccò l'ombra di un uomo. E l'ex governatore aveva preso di petto la cosa parlando con i giornalisti: «È in carcere da 4 anni senza una sentenza definitiva. Non è un trattamento degno di un paese civile». Era stato poi l'avvocato del lobbista spiegare come fosse possibile: Daccò che viene condannato mentre i suoi coimputati vengono assolti, la Cassazione che annulla, l'appello che ricondanna contro il parere della Procura, il nuovo ricorso ancora in attesa di venire esaminato. Nel frattempo, in nome della pericolosità sociale dell'imputato, tutte le richieste di scarcerazione sono state respinte.
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