Dall'euro al lavoro, quel patto impossibile col M5s

Malgrado gli ammiccamenti dei bersaniani, un'alleanza post voto coi grillini appare difficile

Dall'euro al lavoro, quel patto impossibile col M5s

Diritti civili ed Europa. Ma anche fisco, lavoro e rapporti con i sindacati. Le distanze tra Movimento 5 stelle e Liberi e uguali ci sono eccome. Malgrado gli ammiccamenti rivolti da Pietro Grasso e compagni in direzione dei grillini, raggiungere un accordo di programma a urne chiuse sarebbe un'impresa tutt'altro che facile.

Ogni discorso è rimandato a dopo il 4 marzo. Ma se Luigi Di Maio decidesse di aprire un tavolo con i bersaniani, le divergenze da ripianare non sarebbero poche. Da una parte c'è la «cosa rossa», dall'altra un movimento che ha sempre rifiutato ogni etichetta ideologica. L'ultimo scambio di accuse tra Leu e M5s si è manifestato negli ultimi mesi della legislatura.

Se la legge sullo ius soli è finita su un binario morto non è stato soltanto per l'opposizione del centrodestra o le diserzioni nel Pd. Neppure i grillini, lo scorso 23 dicembre, si sono presentati nell'aula di Palazzo Madama a discutere il provvedimento sulla cittadinanza, che è naufragato in mancanza del numero legale. Più di un esponente di Leu ha gridato allo scandalo. Di Maio si è limitato a ripetere che, secondo il Movimento, il tema va affrontato «a livello europeo». A Bruxelles, mesi fa, hanno però ricordato che la materia è di competenza nazionale.

Proprio l'Ue rappresenta un altro elemento divisivo. Nell'assemblea di Strasburgo, i deputati grillini condividono il gruppo parlamentare con gli euro-scettici dell'Ukip, capitanati da Nigel Farage. I tre bersaniani, Massimo Paolucci, Pier Antonio Panzeri e Flavio Zanonato, sono invece membri del gruppo pro-Ue dei socialisti. Ogni ipotesi di referendum sull'euro «è una sciocchezza incostituzionale», taglia corto Alfredo D'Attore, deputato di Mdp a Montecitorio, per il quale «anche chi ragiona da anni di ipotesi di uscita dall'euro ha mai pensato a cose così strampalate». Non è così per il candidato premier dei 5 Stelle, per il quale, sebbene come extrema ratio, una consultazione sulla moneta unica sarebbe plausibile. E se davvero si arrivasse alle urne Di Maio voterebbe «per l'uscita, perché significherebbe che l'Europa non ci ha ascoltato».

Anche rispetto all'atteggiamento da tenere con i sindacati, Leu e M5s sono su pianeti diversi. La sinistra guidata da Grasso si è proposta come punto di riferimento della Cgil, accogliendo in blocco le critiche di Susanna Camusso al pacchetto previdenza varato dal governo. Lo scorso settembre, parlando al Festival del Lavoro di Torino, Di Maio ha detto: «O i sindacati si autoriformano o quando saremo al governo faremo noi la riforma».

E le divisioni in tema di lavoro non si fermano qui. Leu e M5s hanno in comune l'obiettivo di superare il Jobs Act varato da Matteo Renzi. Come chiarito dallo stesso Di Maio, i grillini sostengono la reintroduzione dell'articolo 18 soltanto per le imprese con più di 15 dipendenti.

La sinistra, che a novembre ha visto l'aula di Montecitorio rispedire in commissione la proposta di ripristinare la norma contro i licenziamenti, non si fida: «Quando si è discusso di articolo 18, non è che abbiano preso una posizione chiara», sottolinea D'Attorre.

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