«L'euro è irrevocabile». Mario Draghi resta il più solido difensore della moneta unica. Alle spinte divisive portate da alcuni leader politici come la francese Marine Le Pen e da chi pensa che il ritorno alle divise nazionali sia la panacea di tutti i mali, il presidente della Bce continua a opporre l'idea aggregante dei padri fondatori dell'Unione.
Fuori dall'eurozona si sta peggio, e chi dice il contrario ha scordato il passato, dice chiaro e tondo all'Europarlamento l'ex governatore di Bankitalia. Probabilmente disturbato dalle fresche esternazioni di Angela Merkel sull'ipotesi di un'Europa a doppia velocità. «Credo sia una visione appena abbozzata su cui a questo stadio non sono in grado di esprimere alcun commento», si limita a dire. Ma la sensazione è che Draghi non abbia gradito le parole della Cancelliera tedesca, altra benzina sul fuoco in un momento reso oltremodo delicato dall'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Le misure protezionistiche, infatti, inquietano il leader dell'istituto di Francoforte («L'Ue è nata basandosi sul concetto del libero scambio») quanto l'idea di riportare il Far West a Wall Street con la rottamazione delle regole adottate in seguito al virus dei mutui subprime. «L'ultima cosa che ci serve - spiega - è un rilassamento delle regole» nel settore finanziario. Replicare le condizioni che sono state alla base della grande crisi scoppiata nel 2007 «è qualcosa di molto preoccupante». E se il Vecchio continente è uscito vivo da quello tsunami, il merito va proprio attribuito all'euro, a quei legami creati con il Trattato di Maastricht del 1992. Dannoso pensare di tornare al passato, magari riportando in vita il serpentone monetario basato su bande di oscillazione prestabilite tra le diverse monete. «Gli anni '70 e '80 non erano anni di stabilità - ricorda il capo dell'Eurotower - ma di continue svalutazioni competitive». L'euro è nato anche perché «il mercato interno non sarebbe sopravvissuto» alla guerra valutaria tra i membri dell'Ue. Dal punto di vista di Draghi, non c'è dunque accusa più infamante di quella ricevuta di recente da Trump di taroccare i cambi per avvantaggiare la Germania. «Noi non manipoliamo» l'euro, dice secco il banchiere italiano. Che ricorda come l'ultimo intervento della Bce risalga al 2011, nell'ambito di una manovra concordata con le altre banche centrali allo scopo di stabilizzare lo yen. Draghi cita inoltre un rapporto del Tesoro Usa, risalente allo scorso ottobre (quindi prima dell'avvento del tycoon), in cui non si dice che la valuta europea viene manipolata «e la ragione è che non sono soddisfatti i criteri che indicano l'esistenza di pratiche sleali». Quanto alla Germania, il forte surplus commerciale, che riflette «la forza dell'economia e della sua competitività», non viene utilizzato «per speculare» in relazione al cambio dell'euro.
Dal punto di vista di Draghi, la strada è una sola: tenere la barra dritta sul progetto di integrazione per presentarsi più forti sulla scena internazionale. Senza dimenticare di affrontare «le persistenti fragilità a livello nazionale ed europeo». Parole che sembrano puntare direttamente all'Italia, chiamata in causa da alcuni interventi di europarlamentari e implicitamente ammonita dal presidente della Bce quando ha rammentato che «i Paesi che non hanno spazio di bilancio, non devono cercare di usarlo e forzare per trovare spazio fiscale quando non ce n'è». Inoltre, Draghi approfitta della risalita dello spread Btp-Bund oltre quota 200 per sottolineare come esista ancora la disciplina del mercato nonostante le misure della Bce. «Vediamo che i mercati stanno reagendo a varie condizioni», dice.
Ma a chi lamentava trattamenti di favore verso Roma, Draghi replica con un netto diniego: nella gestione del Quantitative Easing
la Bce «non ha fatto nessuna disuguaglianza». Lo provano le cifre: il totale degli acquisti dall'inizio del programma per l'Italia è pari a circa 221,91 miliardi, contro i 321,66 per la Germania e i 255,11 per la Francia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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