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Draghi e la mina giustizia: il Parlamento resta diviso

Difficile mettere d'accordo Fi e M5s su una riforma. Verso un'ordinaria amministrazione di "alto livello"

Draghi e la mina giustizia: il Parlamento resta diviso

E se alla fine sul tema cruciale della Giustizia il nascente governo Draghi dovesse rifugiarsi nell'unica riforma in grado di non scontentare nessuno, ovvero nessuna riforma? È questo l'interrogativo che nelle ultime ore sta prendendo piede tra gli addetti ai lavori, man mano che il cammino dell'esecutivo tecnico dell'ex governatore di Bankitalia sembra avviarsi al successo. È vero che la linea del «non fare» appare difficilmente compatibile con il profilo di Draghi. Ma è altrettanto sicuro che per il neopremier riuscire a convogliare su un progetto comune le molte anime della sua maggioranza appare impossibile: perché su nessun tema le linee dei partiti pronti a votare la fiducia divergono quanto sul tema della giustizia.

Draghi lo sa, e sa anche che proprio sul tema della giustizia si sono inabissati una sfilza di governi. Così potrebbe convincersi che l'unica strada sia lasciare al suo governo la gestione dell'ordinaria amministrazione: una routine di alto profilo, soprattutto se al ministero dovesse approdare Marta Cartabia; e comunque un compito arduo, perché il disastro è tale che anche garantire il decoroso funzionamento di tutti i tribunali grandi e piccoli del Paese sarebbe un successo epocale. Ma che lascerebbe irrisolto il tema delle riforme strutturali senza le quali la giustizia continuerà a essere una palla al piede della modernizzazione del Paese. Sul fonte del processo civile, che sta particolarmente a cuore a Draghi, quanto nel settore penale. La linea che il presidente incaricato starebbe elaborando non rinnega la necessità di queste riforme, ma ne lascia la responsabilità al Parlamento. Sarà lì che le forze politiche dovranno trovare l'intesa intorno a interventi in grado di rimettere in sesto il settore. E se non ci riusciranno saranno loro a prendersene le responsabilità.

Se apparentemente questa strategia non fa una piega, in concreto rischia di avere conseguenze spiacevoli. Prima che si possa formare alle Camere una maggioranza su progetti di intervento radicale sulla giustizia rischia infatti di passare del tempo. E nel frattempo si manifesteranno in tutta la loro gravità le conseguenze della «riforma Bonafede» della prescrizione, la misura-simbolo che il ministro uscente ha imposto ai suoi alleati (prima la Lega, poi il Pd) e che è entrata in vigore nonostante le critiche esplicite di tutti i costituzionalisti italiani. La riforma è in vigore, e tutti i reati commessi dall'inizio di quest'anno sono destinati a non prescriversi praticamente mai. Per scongiurare questo scenario, sono state avanzate due proposte: il «lodo Annibali», dal nome della senatrice di Italia viva che lo ha avanzato, che prevede il rinvio per un anno della riforma Bonafede e il «lodo Conte» (da Federico Conte, di Leu) che ne attutisce gli effetti, con un sistema complicato che distingue tra assoluzioni e condanne. Il Pd l'anno scorso per non litigare con i grillini ha fatto affossare il «lodo Annibali». Italia viva ha reagito minacciando di votare la proposta d Forza Italia che cancellerebbe la riforma di Bonafede. In questo caos (e con i grillini arroccati a difesa del loro successo) difficile ipotizzare che qualcosa si sblocchi. Più facile che sia la Corte costituzionale, già investita da più ricorsi, a rimettere le cose a posto.

A rasserenare il clima non contribuisce certo l'impatto sul mondo giudiziario del «caso Palamara». Nei giorni scorsi la commissione Antimafia ha deciso di convocare l'ex pm per analizzare le sue accuse: ieri il presidente dell'Antimafia, il grillino Nicola Morra apprende d essere indagato a Cosenza per le frasi (indifendibili) dedicate alla defunta governatrice Jole Santelli.

«Sarà certamente un caso», commenta amaro Morra.

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