Ci si passa le somiglianze e i gesti. Le confidenze nello stesso lessico, gli odori che fanno memoria, i vestiti diventati stretti, le botte. Spalla a spalla ci si spia crescere, fare a gara su per i centimetri che l'adolescenza distribuisce a caso, incurante dell'anagrafe, dell'ordine di comparizione al mondo, della regola non scritta secondo cui è il più vecchio a dover venire alto prima (e meglio) del più giovane. E poi si va avanti per la vita a cercare di essere altro e la stessa cosa: contemporaneamente. Spalla a spalla. Senza capire mai fino in fondo quanto ci si spintoni e quanto ci si sorregga. Come quando si finisce, assieme, a piangere gli stessi genitori. E in quel momento è solo per lui, se non si è soli al mondo: indipendentemente dai figli, dalle compagne, dalle mogli, dagli amici. Un fratello è l'ultima radice che si strappa, l'ultimo congedo da ciò che si era prima. Dopo di lui, c'è solo la vita in avanti.
È quello che deve aver pensato ieri Giulio Delfini, subito dopo aver trovato morto per un malore il fratello Paolo, subito prima di uccidersi con un colpo di pistola. Per andargli dietro. Per non stare senza di lui. Settantaquattro anni Giulio, settantatrè Paolo, entrambi medici, rispettivamente presidente e vicepresidente della casa di cura privata Villa Igea di Modena, città in cui i due fratelli vivevano, assieme dopo la scomparsa dell'anziana madre, in un bell'appartamento al primo piano nel centro storico, in Rua Muro. Sembra che Giulio abbia lasciato un biglietto per spiegare il suo gesto, per spiegare che senza suo fratello non avrebbe sopportato di stare, dopo una vita e una carriera assieme. È stata la domestica ad avvisare la polizia e i vigili del fuoco, perché nessuno andava ad aprire la porta e in casa non si riusciva a entrare. Molto noti in città, la gente ha descritto i due fratelli come «gentili, riservati, tranquilli», che è poi come si descrive sempre qualcuno che sceglie un epilogo inaspettato. È stato Paolo a sceglierlo. Ma avrebbe forse potuto anche andare al contrario. Forse sarebbe stato lo stesso. Troppa vita solo in avanti.
E mio fratello non è figlio unico. Compagni senza doversi raccontare, incastrare, modificare per costruire una vicinanza. Compagni magari con attriti, ma senza sforzo. Perché non ce n'è mai quando si viene dalla stessa carne, perché in ogni caso ci si sistema: per emulazione o per ribellione. Ma tutto torna in pari, o pende sbagliato ma si aggiusta così e va a finire in equilibrio. Senza magari nemmeno mai dire, perdonandosi al buio delle parole. Stando zitti per anni, perché sono i silenzi a fare la qualità di un rapporto. «Sei mio fratello» si dice quando si sceglie con forza qualcuno o quando si «riconosce» con sgomento qualcuno. Perchè sì, c'è gente che si conosce e gente che si riconosce.
E allora quello è il complimento migliore che gli si possa rivolgere, che sentiamo di rivolgergli, perché è come dire che è impastato con qualcosa di noi, che c'è stato un momento, un luogo, un motivo per cui siamo stati la stessa cosa, anche solo per un istante, anche solo in un pezzettino. Ed è esattamente quello che si cerca, ed è esattamente quello che si ha quando si ha un fratello. Quando vostra madre di voi ne fa due.Fratelli di sangue, si dice. Appunto...
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