«Trucco»: così il commissario pro-tempore agli Affari economici e monetari dell'Ue, Jyrki Katainen, definisce la battaglia di Renzi sulla flessibilità in Europa. Purtroppo ha ragione: siamo al punto che o si fa l'Europa o si muore. E l'unica vera strategia per fare l'Europa oggi si basa su 4 leve, da azionare contemporaneamente. La reflazione; riforme simultanee in tutti gli Stati dell'area euro; il ruolo della Bce che accompagna la reflazione e le riforme sincronizzate nei paesi dell'area euro utilizzando al massimo gli strumenti previsti dal suo statuto; l'accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, economica, di bilancio e politica.
L'euro forte non fa bene all'Ue La forte sopravvalutazione è una delle cause principali dell'incombente deflazione. Una moneta troppo forte penalizza le esportazioni e premia le importazioni. Opera quindi in senso contrario alle prospettive di sviluppo, favorendo i concorrenti esteri. Naturalmente in questo equilibrio perverso c'è il rovescio della medaglia. Una moneta forte attira capitali dall'estero. Il suo eventuale ulteriore rafforzamento consente, infatti, di ottenere guadagni di capitale (plusvalenze) consistenti. La differenza tra rivalutazione dell'euro o svalutazione di un'altra moneta si misura in relazione agli effetti che produce. Se l'euro si rivaluta si perde competitività nei confronti di tutti gli altri Paesi. Se il dollaro o lo yen si svalutano ne risentono solo i rapporti tra i due Paesi interessati.
Deprezzare l'euro del 20% In genere è più facile svalutare che rivalutare. La svalutazione del cambio favorisce le imprese che esportano. La barriera che si innalza per contenere le importazioni è in parte aggirata dall'aumento dell'inflazione interna, che la stessa svalutazione determina. Per cui se i salari non sono indicizzati, si assiste in genere ad una contrazione dei consumi interni, che riduce, in tutto o in parte, il vantaggio competitivo iniziale. Prima che il ciclo si compia, tuttavia, l'economia è ripartita, trainata dalle esportazioni e dalla svalutazione dei salari.
Le politiche espansive Se la politica economica è troppo espansiva, il risultato è una crescente inflazione. Le importazioni diventano più competitive rispetto alla produzione interna. Le esportazioni incontrano difficoltà crescenti sui mercati internazionali. Solo per queste ragioni il cambio tende a flettere. Sennonché al primo accenno i possessori di capitali vendono moneta nazionale ed acquistano valuta estera. Quando la prima sarà svalutata, infatti, potranno realizzare cospicue plusvalenze, ricomprando la moneta nazionale.
Le politiche restrittive Quando una moneta è debole, invece di favorirne la corsa, si può tentare di arrestarne il declino con una politica restrittiva. Riducendo il debito pubblico, aumentando i tassi di interessi e restringendo la circolazione monetaria interna, infine giungendo ad un nuovo compromesso con le organizzazioni sindacali: minori salari o aumento della produttività. Binomio che viene misurato dal costo del lavoro per unità prodotta. Se questo diminuisce si è sulla buona strada, altrimenti si va verso la perdizione.
La Federal ReservePer lunghi anni nessuno si è preoccupato, o ci si è preoccupati poco, dell'inflazione. Gli Usa, sempre più esposti sul piano internazionale come grande potenza mondiale, ritennero a un certo punto che fosse giunto il momento di dire basta. Fu Paul Volcker, presidente della Federal Reserve, ad aumentare i tassi di interesse per riportare la situazione sotto controllo. La Banca d'Italia decise, quindi, di adeguarsi alle nuove tendenze dando inizio a una politica più restrittiva, con l'obiettivo di rafforzare il cambio.
Il Sistema monetario europeo Di fronte alle turbolenze internazionali a livello europeo si decise la nascita dello Sme. Le diverse monete furono legate da un rapporto di cambio fisso, seppure flessibile all'interno di una banda di oscillazione. Gli accordi monetari definirono altresì le procedure di intervento in caso di burrasca. Non era solo il singolo Paese colpito a dover intervenire, ma era disposta una rete di salvaguardia comune. Questo almeno in teoria.
Il valore della monetaPer diversi anni l'Italia riuscì a rispettare i patti. Questo equilibrio resse fino agli inizi degli anni '90 quando la Germania rialzò i suoi tassi di interesse. Le politiche più restrittive, fino ad allora seguite da Italia, Inghilterra Spagna e Portogallo, non ressero all'urto e le monete si polverizzarono.
Gli anni '90I tre anni successivi alla crisi del '92 furono per l'Italia anni di sviluppo. I margini di fluttuazione tra le monete si restrinsero e per mantenere le promesse di quel fiscal compact ante litteram che è Maastricht, la Banca d'Italia fu costretta a mantenere una politica restrittiva. Furono siglati accordi con le organizzazioni sindacali tesi a ridurre progressivamente i meccanismi di indicizzazione dei salari. Fu un compromesso che consentì all'Italia di rimanere all'interno dei nuovi accordi europei, ma con l'handicap di vedere il tasso di crescita ridursi progressivamente.
La moneta unica La nascita dell'euro non fece altro che rendere permanente questa contraddizione. Nel finto tripudio generale, i target previsti da Maastricht furono conseguiti, con un tasso di cambio (1.936,27 lire per un euro) che peserà come un macigno sulle prospettive degli anni futuri. Unica voce discorde fu quella di Antonio Fazio, governatore della Banca d'Italia. Quel tasso di cambio non sarebbe divenuto un cappio per l'economia italiana solo ad una condizione: che si fossero fatte le riforme di cui ancora oggi si discute.
Il valore dell'euro Agli inizi l'Italia era essenzialmente un Paese terzista, che vendeva soprattutto prodotti intermedi, con una forte prevalenza nei confronti della Germania. Quei mercati, a seguito della politica di delocalizzazione tedesca, si sono progressivamente ristretti. L'Italia ha cercato di compensare le perdite orientando le esportazioni verso i Paesi extracomunitari. Questa strategia ha funzionato finché l'euro era debole nei confronti del dollaro e delle altre monete, ma quando il ciclo si è invertito, le cose non potevano che peggiorare.
Il rapporto euro/dollaro Il rapporto dollaro/euro è una variabile non secondaria della possibile ripresa dell'economia italiana. Finché i tedeschi manterranno il loro surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti e questa condizione si rifletterà su un euro forte, gli americani mugugneranno, ma non potranno che essere contenti. È uno dei tanti modi per scaricare sull'Europa le loro difficoltà interne, misurate dal fatto che mentre l'economia americana mostra un tasso di crescita soddisfacente, l'Europa è sull'orlo della deflazione.
L'anomalia tedesca Parlando della Germania si discute di «egemonia riluttante». Sarà anche vero, sta di fatto che la crisi di una parte dell'Europa non è comparabile con la crisi subita dai tedeschi e dai loro più stretti alleati. Il vantaggio comparato di questi ultimi è dato dalla vicinanza con i Paesi dell'Est e dalle pratiche delocalizzanti, unite ad un valore teorico del vecchio marco che appare sottovalutato rispetto alle monete concorrenti. In definitiva una posizione di comodo.
Conclusioni Come l'eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti tedesca ha portato a una forte e dannosa rivalutazione dell'euro, così l'abbattimento da parte della Germania del proprio surplus porterebbe, se attuato, a una quanto mai necessaria, svalutazione dell'euro. Una linea di politica europea ben diversa da quella di Matteo Renzi.
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