L'ipocrisia misurata in metri quadrati

Chi immagina che quelle celle stipate siano popolate solo da colpevoli dovrebbe ricordare che oltre il 25% dei reclusi in Italia è in attesa di giudizio

L'ipocrisia misurata in metri quadrati
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Esiste un'unità di misura particolarmente efficace per valutare l'ipocrisia della politica italiana: la condizione delle nostre carceri.

In questa torrida domenica di fine agosto mi capita di leggere le lettere scritte da Gianni Alemanno dal carcere. L'ex sindaco di Roma è stato costretto, in un singolare gioco dell'oca, a ricominciare da capo la sua pena per aver violato le regole dell'affidamento esterno. Non entro nel merito della vicenda, che conosco poco. Mi limito a chiedermi quale pericolosità sociale rappresenti oggi Alemanno, tale da rendere necessario aggiungerlo alla massa già soffocante del penitenziario romano.

Eppure, in quelle lettere, a colpire non è tanto la sorte di chi scrive, quanto il racconto di volti anonimi e di storie minori, che insieme compongono quella massa indistinta e spersonalizzata che definiamo popolazione carceraria.

Le visite rituali e le lacrime di coccodrillo

Ogni estate si ripete lo stesso rituale: parlamentari in visita agli istituti di pena, descrizioni drammatiche del sovraffollamento, appelli generici perché qualcuno faccia qualcosa, lacrime di coccodrillo versate per i suicidi nelle celle. Poi, come da calendario, la politica parte per le vacanze, i magistrati pure, talvolta dopo aver firmato gli ultimi ordini di custodia cautelare.

Eppure chi immagina che quelle celle stipate siano popolate solo da colpevoli dovrebbe ricordare che oltre il 25% dei reclusi in Italia è in attesa di giudizio: uomini e donne che, secondo la legge, sono innocenti.

Dal giustizialismo alla vendetta sociale

Il vero problema è culturale. Negli ultimi decenni la deriva giustizialista e moralista, sostenuta da ampie fette della politica di destra e di sinistra, da settori della magistratura e da una parte del giornalismo, ha assecondato un'opinione pubblica allevata a carne cruda, più assetata di vendetta che di giustizia.

Così si è rovesciato il percorso avviato da Cesare Beccaria e consacrato dalla nostra Costituzione: quello di una classe dirigente chiamata a illuminare i sentimenti più oscuri della massa con la fiaccola di una giustizia equilibrata, mai vendicativa, capace di ascoltare le vittime senza dimenticare i diritti dei colpevoli o dei presunti tali. Una giustizia, insomma, che sappia compiere scelte impopolari in nome di principi superiori.

Un problema semplice, irrisolto da decenni

Non si spiega altrimenti come uno degli Stati più evoluti del pianeta, l'ottava economia mondiale, erede di una raffinata civiltà giuridica, non riesca a risolvere un problema che altrove è stato affrontato con strumenti concreti e tutto sommato semplici.

Senza essere né giurista né ingegnere, è facile pensare a una riforma che limiti la carcerazione preventiva ai soli casi di reale pericolosità sociale, sostituendola in modo automatico non discrezionale con strumenti alternativi come i domiciliari, l'obbligo di firma, il braccialetto elettronico.

Un paradosso economico e urbanistico

Quando accade una calamità naturale, la Protezione Civile è in grado in poche settimane di costruire villaggi provvisori dotati di casette con aria condizionata e servizi igienici. Perché non si potrebbe fare altrettanto per i detenuti, ospitandoli in condizioni civili e dignitose, invece che in strutture fatiscenti, spesso ottocentesche?

Per di più, molte carceri italiane si trovano al centro di città dove i valori immobiliari sono elevatissimi. Cederle ai privati per operazioni di edilizia commerciale e ottenere in cambio la costruzione di nuove strutture moderne in aree meno pregiate non sarebbe né impossibile né illogico.

E non dimentichiamo l'aspetto economico: ogni detenuto costa allo Stato circa 150 euro al giorno, una cifra paragonabile al prezzo di una pensione completa in un albergo di media categoria. Possibile che con queste risorse non si riesca a garantire condizioni di vita più umane di una cella sovraffollata, con otto letti e un fornello da campo?

Un confronto impietoso con l'Europa

Basta osservare le foto delle carceri in Svezia, Danimarca, Norvegia, Olanda o Germania per rendersi conto che un livello di civiltà superiore non solo è possibile, ma è già realtà. E non parliamo di Paesi con condizioni economiche o sociali incommensurabili con le nostre.

Il coraggio che manca

Servirebbe una politica capace di abbandonare l'estetica del buttiamo via le chiavi e di spiegare all'opinione pubblica che un Paese si giudica da come tratta chi si trova nelle condizioni più difficili, anche quando quelle condizioni sono frutto di errori gravi.

L'umanità

è un patrimonio collettivo. Chi pensa che il carcere non lo riguardi, chi ritiene sprecato ogni euro speso per migliorare la vita di chi vi è recluso, non solo sbaglia: mina le fondamenta stesse della civiltà in cui vive.

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