Beirut Recep Tayyip Erdogan torna a giocarsi tutto su Istanbul, come all'inizio della sua ascesa, quando con la vittoria nella metropoli distesa tra Europa e Asia cominciò la scalata al potere. Istanbul non è la capitale ma è il motore economico e politico della Turchia. Ed è soprattutto un simbolo, il centro dell'ultimo grande impero islamico, quello ottomano. Erdogan ha perso Istanbul alle amministrative di marzo, ma il suo partito, l'Akp, è riuscito a ottenere la ripetizione del voto. E oggi si tornano a sfidare i due candidati del ballottaggio: l'ex premier Binali Yildirim, uomo di Erdogan, appoggiato anche dai nazionalisti di Mhp, ed Ekrem Imamoglu, scelto dai repubblicani kemalisti del Chp e sostenuto dai nazionalisti di Iyi Parti e dai curdi dell'Hdp.
Imamoglu aveva vinto lo scorso 31 marzo con un vantaggio di 24mila voti, poi ridotti dopo il riconteggio delle schede nulle a 13.729 voti. Ma il 6 maggio la commissione elettorale Ysk ha stabilito che si sarebbe dovuto rivoltare il 23 giugno. Imamoglu in un dibattito, il primo in Turchia dopo 17 anni, ha definito il voto «una lotta per la democrazia». Erdogan invece ha accusato Imamoglu di «legami con terroristi» e lo ha paragonato al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. «Domenica diremo sì a Binali Yildirim o diremo di sì ad al-Sisi?», ha chiesto alla folla. Questo perché anche il leader del partito filo-curdo Hdp Selahattin Demirtas, in carcere da due anni, ha fatto endorsement per Imamoglu.
È stata una campagna elettorale all'ultimo sangue. Perché come amava dire lo stesso Erdogan «chi vince a Istanbul vince in tutta la Turchia». La metropoli ha 16 milioni di abitanti ed è il centro di gravità dell'intero Paese. Erdogan ha iniziato la sua carriera politica proprio qui 25 anni fa e da allora il suo partito l'ha sempre governata. Secondo il Turkish Statistica Institute Istanbul rappresenta più del 31 per cento del prodotto interno lordo del Paese. Ha un'economia maggiore di paesi come il Portogallo, la Grecia e l'Egitto. Ma per Erdogan la sfida arriva in un momento difficile. La Turchia si barcamena in un difficile quadro internazionale. I rapporti con Washington sono degenerati dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016. Ankara sostiene che è stato organizzato dal predicatore islamico in esilio in Pennsylvania Fethullah Gulen. Dopo il fallito golpe il governo ha arrestato e licenziato dalle istituzioni statali decine di migliaia di persone accusate di essere seguaci di Gulen. Il Paese ha dovuto affrontare attacchi terroristici, l'impegno nella guerra in Siria e migrazioni di massa. Il conflitto siriano ha portato a un riavvicinamento della Turchia alla Russia, a una spartizione delle sfere di influenza nel Paese e all'acquisto del sistema anti-aereo S400, accordo ostacolato da Washington.
Una vittoria di Imamoglu significherebbe che battere il finora invincibile Erdogan non è impossibile e sarebbero un trampolino di lancio per il leader dell'opposizione, personaggio agli antipodi di Erdogan. Rappresenta una Turchia più aperta, e non assediata da nemici, interni ed esterni, i gulenisti, gli Stati Uniti, l'Europa, i curdi. Per Erdogan perdere la città significherebbe rinunciare anche ai soldi di cui usufruiscono numerose fondazioni a lui vicine.
Alcune hanno ricevuto circa 100 milioni di dollari di sussidi dal comune tra il 2014 e il 2018. «Ma anche se l'Akp vincesse le elezioni, la resilienza della democrazia in Turchia - spiega l'ex ambasciatore Usa ad Ankara Robert Pearson - è chiaramente la lezione più importante da trarre da questo momento».
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