La parlantina accattivante di un venditore di tappeti, l'efficacia politica di un placebo. La crisi del Monte dei Paschi e, nel complesso del sistema bancario italiano, è una delle tante cattive eredità lasciate al successore da Matteo Renzi che in mille giorni di governo non è riuscito a incidere sulla situazione del comparto italiano del credito e, se possibile, l'ha peggiorata.
Eppure l'ex premier il 21 gennaio scorso non aveva dichiarato a Porta a porta: «Mps oggi è risanata, investire è un affare»? I fatti si sono incaricati di smentirlo. Ma vediamo quanti e quali errori siano stati commessi dall'esecutivo in carico ancora per poche ore. In primo luogo, nel febbraio 2014, al momento nel quale Renzi si insediò a Palazzo Chigi, era possibile intervenire su due problemi, al tempo ancora aperti, che per l'Italia si sarebbero rivelati esiziali. Il governo italiano avrebbe dovuto battere i pugni sul tavolo sia per limitare lo strapotere tedesco nel nascente Meccanismo europeo di supervisione (l'Autorità di vigilanza bancaria che, di fatto, mette i bastoni tra le ruote a Mario Draghi) sia per modificare in corsa tanto la direttiva sul bail in quanto i parametri del Comprehensive assessment, cioè la valutazione dello stato salute delle banche sistemiche che di lì a poco avrebbe avuto effetti nefasti sull'Italia.
È vero che la storia non si fa con i «se» e con i «ma», tuttavia se Renzi avesse avuto un po' più di attenzione sulla materia, il sassolino che rotola sul crinale non sarebbe diventato una valanga. C'era tempo per mettere fra parentesi quella direttiva, c'era tempo per evitare che i titoli di Stato fossero valutati zero nei bilanci bancari in quegli esercizi teorici. L'allarme di Bankitalia, benché flebile, rimase inascoltato perché a Renzi interessava ottenere dall'Europa flessibilità per le mance nella legge di bilancio piuttosto che concentrarsi sugli argomenti chiave.
«Grazie al mio governo la politica non mette più bocca nelle banche», disse Matteo il 6 settembre scorso rivendicando la riforma delle Popolari (ora sospesa dal Consiglio di Stato) e del credito cooperativo. Il cambiamento, imposto sempre dall'Europa, ha accelerato le aggregazioni mettendo ancor più in evidenza le carenze patrimoniali del nostro sistema, vedasi Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Accecato dalla possibilità di metter becco in grandi centri di potere locali, opportunamente «renzizzati», il premier si dimenticò delle questioni scottanti. Le quattro banche da tempo in crisi (Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara) non riuscirono per tre anni a trovare un cavaliere bianco. A un passo dalla liquidazione fu approvata la legge che recepiva talis et qualis il bail in, creando il primo grande sommovimento borsistico negativo per le banche quotate a Piazza Affari. Le sofferenze di queste ultime vennero cedute al 18% del valore nominale: un pesante precedente per un sistema che ha 360 miliardi di crediti dubbi, in gran parte creati dall'austerity merkeliana.
Si arriva così al 2016, anno nel quale Matteo Renzi è diventato la parodia di se stesso. Prima pensa a una soluzione pubblica per i non performing loans, poi il ministro dell'Economia Padoan e l'Europa gli ricordano che non si può fare. Partorisce così la garanzia Gacs sulle cartolarizzazioni che, come Mps dimostra, non serve. Poi scongiura Bruxelles e Francoforte che gli ricordano che ha già avuto la sua dose di flessibilità e, infine, inventa il Fondo Atlante dove le banche più forti iniettano soldi per salvare le più deboli. A giugno disse «Atlante è in condizione di essere ulteriormente ricapitalizzato». I denari, in realtà erano finiti e con loro anche il Monte Paschi.
La defenestrazione dell'ex ad Viola è stato solo il penultimo atto di un teatrino che ha calato il sipario con il referendum cui erano state affidate le sorti di tutte le banche italiane. I mercati, osservando l'instabilità che ne è seguita, hanno solo tirato le somme.
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