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Esposito, la giustizia mette il turbo per processare giornalisti e politici

Citati in giudizio per articoli e dichiarazioni sulla sentenza Berlusconi. Indagini concluse in otto mesi

Esposito, la giustizia mette il turbo per processare giornalisti e politici

È un foglio di carta quello che mi porge il poliziotto della Digos, ma assomiglia a un missile. Mai visto nulla di simile: ho commesso l'eventuale diffamazione, tutta da dimostrare, con due articoli pubblicati sul Giornale il 6 e 7 luglio 2020. Otto mesi dopo l'indagine è già finita: Antonio Esposito - sì, sempre lui, il presidente della sezione feriale della Cassazione che condannò Berlusconi - ha letto e querelato; quello che ricevo è già l'atto di conclusione delle indagini. Siamo a un passo, di solito scontato ma spero questa volta di essere smentito, dalla richiesta di rinvio a giudizio.

Un razzo, partito dalla Procura di Roma.

Naturalmente, non sono solo, ma in ottima compagnia. C'è il direttore Alessandro Sallusti, non per omesso controllo, ovvero per il classico reato di chi dirige l'orchestra, ma per «aver partecipato ad una campagna giornalistica a contenuto denigratorio estrinsecatasi attraverso ripetuti articoli e titoli sul quotidiano il Giornale». Insomma, pure Sallusti ha dato fuoco alle polveri e pure lui nell'estate scorsa, fra il 29 giugno e il 27 luglio 2020. E ancora la lista, interminabile, comprende Vittorio Feltri, Nicola Porro, conduttore del programma Quarta Repubblica, Pietro Sansonetti, direttore del Riformista, e Pietro Senaldi, direttore di Libero; il sottosegretario alla difesa Giorgio Mulè, la capogruppo al Senato di Forza Italia Anna Maria Bernini, l'azzurro Andrea Ruggieri, Fabrizio Cicchitto che aveva già raccontato sul Giornale l'offensiva di Esposito.

La vicenda è quella del presunto retroscena, chiamiamolo così, della sentenza che mise fuori gioco il Cavaliere per frode fiscale. In un colloquio, trascritto in un file audio, il relatore di quella causa Amedeo Franco spiega a Berlusconi che quel collegio era un «plotone di esecuzione». Lui non era d'accordo, ma alla fine si piegò a quella condanna già scritta e a quel clima ostile al Cavaliere. È vero, non è vero? La registrazione parla chiaro, anche se Franco è morto e il fatto obiettivamente di grande rilevanza. Una confessione del genere lascia sbigottiti e suscita inquietudine, pur atterrando sulla stampa postuma. Condita da veleni e polemiche feroci.

Cosi nell'estate scorsa il Riformista e Quarta Repubblica alzano il velo, il Giornale, Libero e un po' tutti i quotidiani dedicano pagine intere a questo sconcertante capitolo della giustizia italiana.

Nel capo d'imputazione di Sallusti si legge però che gli articoli «furono scritti sulla base di prove non verificabili (segnatamente un file audio attribuito alla persona di un consigliere deceduto) e attraverso una ricostruzione artificiosa degli eventi che avevano preceduto la pronuncia della suddetta corte in data 1 agosto 2013».

Si vedrà. L'asserto - questa è la mia opinione - mi pare assai scivoloso, ma qui mi limito a constatare la grande velocità dei pm. A volte la giustizia, la giustizia che arranca e ha un arretrato pauroso di milioni di fascicoli, corre.

Certo, qui non ci sono state perizie, rogatorie o complesse investigazioni. Ma resta lo stupore alla roulette del nostro sistema giudiziario. Anche sul fronte delle diffamazioni, un classico della categoria, ci sono denunce che restano sepolte fatalmente in un cassetto per anni. E poi scompaiono miseramente nelle brume della prescrizione. Qui, se tanto mi dà tanto, fra qualche mese ci sarà l'udienza preliminare e l'esperienza mi insegna che di solito il passaggio è largo: c'è posto per tutti o quasi.

Ci ritroveremo, temo, a difenderci in un'aula del tribunale di Roma.

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